Di LUCA BALDELLI
Che l’Urss sia stato il primo Paese a bandire razzismo, antisemitismo, odio etnico nel mondo, è un dato di fatto ampiamente noto: ogni pagina degli atti politici e delle fonti giuridiche primarie dell’immenso Paese socialista, gronda del nettare dell’umanesimo, del rispetto per il valore della persona, di una sorta di cristianesimo delle origini, archiviato ed anzi negato dal potere temporale della Chiesa e dagli ordinamenti politici ad essa infeudati. Basta sfogliare ancora oggi la Costituzione del 1937, la più avanzata del mondo, assieme a quella italiana ed americana (a differenza di queste, però, tradotta in pratica) per veder rifulgere la più piena concezione dell’uomo come fine e non come mezzo, il valore della libertà, la lotta tenace, indefessa, intransigente, contro le velenose dottrine di odio etnico, razziale, religioso, nazionale. In Urss, negli anni ’20 e ’30, si stabilirono migliaia e migliaia di occidentali e di neri americani, colpiti duramente dalla devastante crisi del capitalismo, esplosa in modo particolare nel 1929: questi proletari, ex artigiani, impiegati del ceto più basso, contadini senza terra o contadini proprietari rovinati dai debiti, trovarono in Urss una madre accogliente, pronta a dare loro quel pane negato dalle sanguisughe capitaliste. Su questo aspetto, da qualche anno, si sono cominciate a scrivere pagine importanti, anche se spesso viziate dal pregiudizio anticomunista ed antisovietico, un pregiudizio assai curioso nelle modalità e nelle forme con le quali si appalesa: per decenni, esso ha negato l’esistenza di ogni emigrazione diretta verso l’Urss; quando non l’ha più potuta negare, dal momento che l’evidenza documentale ha preso il sopravvento, ecco spuntare allora l’artifizio della critica iperbolica: sì, è vero, in molti emigrarono in Urss dai Paesi capitalisti, ma arrivati vi trovarono una realtà deprimente. La bugia e la calunnia sono armi spuntate: quando il loro sipario si squarcia, pensano di difendere i fortini ai quali sono abbarbicate con la carta velina, e così chi le ha in mano non si accorge che, semplicemente, su di esse il cannone della realtà ha trionfato. Nella fattispecie, vi sono prove incontrovertibili del fatto che, su 100 emigrati dai Paesi capitalisti (Usa in particolare) verso l’Urss negli anni dal 1928/29 al 1932 circa, 98 rimasero in Urss, segno questo che, evidentemente, la Patria sovietica tutto era meno che una fonte di delusione per chi vi approdava dai tuguri di Chicago e di Miami, dai ghetti di Harlem e del Bronx, dalla sterminata miseria dei villaggi montani degli Appalachi. Sicuramente, l’Urss non fu una delusione, bensì una generosa, fiorente, calda e ricca Terra promessa per i neri d’America che, con tanta speranza e voglia di riscatto, alla fine degli anni ’20 decisero di emigrare e di stanziarsi nella Patria degli operai e dei contadini, specialmente in quella meravigliosa porzione di Paradiso dove gli echi della Colchide e dell’antica Iberia, con in lontananza i profluvi delicati della Tauride, cingono uomini e cose di aromi di mandarino, limone, grano ed uva. In Abkhazia, terra rigogliosa e carezzata dal sole, Repubblica autonoma all’interno della Georgia sovietica, gli Afro – Americani incontrarono altri loro fratelli che, da tempo immemorabile, vivevano da quelle parti.
Nell’insediamento denominato Adzyubzha, nei pressi del fiume Kodori, e nei villaggi circostanti (Chlou, Pokvesh, Agdarra, Merkulov ed altri ancora), fin dal ‘600 era attestata la presenza di Africani, uomini dalla pelle scura e dalle caratteristiche somatiche inequivocabilmente riconducenti al Continente Nero. Secondo alcuni racconti, la dinastia principesca abkhaza degli Shervashidze (nota anche come Chachba o Chachibaia), aveva portato nei suoi domini questi uomini, affinchè lavorassero nelle piantagioni di agrumi. Nel settembre del 1929, il grande Maksim Gorky, accompagnato dallo scrittore abkhazo Samson Chanba, intraprese un viaggio in quelle terre e poté conoscere la fiorentissima cultura degli Afro – abkhazi, nonché la loro narrazione storico leggendaria del retaggio al quale, a loro dire, erano legati: essi, infatti, si ritenevano discendenti dalle antiche genti d’Etiopia, prova ne sarebbe stata la singolare somiglianza tra i nomi di alcuni villaggi della terra della Regina di Saba e quelli abkhazi nei quali erano stanziati. Toponimi etiopi di villaggi quali Tabakur, Bagadi, Gunma, si ritrovavano, magari solo leggermente modificati, anche in Abkhazia e proprio dove predominante, se non esclusiva, era la misteriosa presenza degli Africani.
D’altro canto, com’è noto, Pietro il Grande portò in Russia numerosi Africani, in quel secolo così febbrilmente pieno di cambiamenti che fu il ‘700, tanto che, come è noto, il bisnonno del grande scrittore Pushkin fu il nero d’Africa Abram Petrovich Gannibal (o Hannibal), uomo di eccezionale intelligenza, militare, ingegnere, nato nel 1696, con ogni probabilità, a Logone Birni, nel Camerun e passato a miglior vita nel 1781, dopo aver servito con lealtà ed entusiasmo l’Impero ed esser stato fregiato di titoli nobiliari. Addirittura, nel V secolo a.C., Erodoto descrisse la popolazione della Colchide come di pelle scura, aggiungendo particolari e cenni che fanno pensare ad una possibile origine africana, specie in relazione all’emigrazione, in quel luogo, di soldati del Re egiziano Sesostris, conquistatore di terre e domini.
Comunque sia andata, e qualunque sia il retaggio degli Africani d’Abkhazia, essi, con la vittoria della Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre, lottarono a fianco dei loro compatrioti e fratelli di tutte le etnie per edificare l’Urss e garantire, a loro stessi ed ai loro figli, un domani radioso di benessere e sviluppo. I risultati non tardarono ad arrivare: in una Georgia sovietica sempre più caratterizzata dall’opulenza e dall’incedere di una modernità positiva, non devastante né alienante, l’ “Abkhazia nera“ conobbe i suoi fasti. Tanto da costituire, assieme ad altri luoghi dell’Urss, un riparo sicuro ed un crogiolo, provvisorio o definitivo, per tanti Afro – Americani che sfuggivano alla miseria ed al razzismo imperanti negli Usa. Un nome su tutti: il kolkhoz “J.V.Stalin“ di Adzyubzha, formato da neri e meticci, orgoglio e vanto non solo degli Afro – abkhazi, ma di tutti gli Abkhazi, dei Georgiani e dei Sovietici di ogni latitudine. Esso rappresentò un faro di dignità, riscatto, convivenza e multiculturalità, proiettando sul globo la luce di quelle idee che Malcom X avrebbe più tardi portato avanti con coraggio ed abnegazione, assieme a Martin Luther King e ad altri apostoli della lotta al razzismo, alla segregazione, all’odio suprematista. Nel kolkhoz “J.V. Stalin“, funzionavano una scuola, un centro sanitario, una biblioteca, un centro culturale; l’attività agricola era fiorente, con colture rigogliose e variegate. Grano, uva, agrumi, cereali di vario tipo si alternavano nei campi, sapientemente condotti da mani esperte e da menti lucide, naturalmente portate per la terra. Prova inequivocabile dell’elevato tenore di vita degli abitanti del kolkhoz, la longevità: molti erano i centenari, come Sofija Muzaleva, che visse quasi 120 anni. In pochi anni, nel territorio del kolkhoz “Stalin“ e nei kolkhoz che con esso collaborarono, le condizioni di vita si elevarono a tal punto che quelle delle nostre campagne a quel tempo, in paragone, si potrebbero definire medievali: strade asfaltate, telefoni anche nelle case private, automobili di proprietà degli agricoltori, trasporti pubblici paragonabili a quelli delle città. Anche grazie all’intraprendenza degli Afro – Abkhazi, la loro zona divenne un punto di riferimento, un centro attrattivo anche per tanti coloni georgiani, russi, ucraini, al punto tale che, nel 1940, nell’area vi erano almeno 264 kolkhoz con presenza significativa di coloni, con oltre 9000 alberi da frutto piantati in breve tempo, 250 case edificate nell’arco dell’anno, 14 reti fognarie realizzate di fresco.
L’aiuto recato a queste realtà da Lavrentij Pavlovic Berija, punta di diamante dei comunisti georgiani e sovietici, fu inestimabile, a dispetto di quanto si è scritto di diffamante e disonorante su questa grande figura. L’economia florida del kolkhoz “Stalin“ è, ancora oggi, uno schiaffo per tutti coloro i quali, superate ormai le soglie del 2000, ancora credono a bugie circa l’esistenza di razze inferiori, non mentalmente predisposte, a livello neuronale, per il lavoro, la produzione di ricchezza, l’industria. Menti meschine e ignoranti, che fanno finta di non vedere come il loro benessere, la loro opulenza sfacciata, sia stata costruita su pletore di schiavi dal fisico forte e dalle menti raffinate, ancorché chiuse nei serragli dello sfruttamento.
Bisognerebbe parlare in maniera più estesa (vi abbiamo fatto rapido cenno, per ora) delle migliaia di Afro – Americani che si stanziarono in ogni parte dell’Urss, recando il loro enorme contributo allo sviluppo della Patria socialista, su un piede di parità assoluto con i loro connazionali. Bisognerebbe far cenno ai tanti Afro – Americani che, senza diventare cittadini sovietici, in Urss viaggiarono e là ebbero la loro seconda casa. Lo faremo presto. Per ora, siamo voluti partire dall’Abkhazia, da una “periferia” che tanto ha dato all’Urss ed è ancora centrale nel quadro geopolitico.
Fonti bibliografiche e sitografiche
Sono fonti italiane, russe, abkhaze non certo diffuse e note al grande pubblico, spesso nemmeno a quello militante, ma sempre e comunque significative, anzi da divulgare maggiormente :
Sidney e Beatrice Webb: Il comunismo sovietico: una nuova civiltà, 2 voll (Einaudi, 1950).
https://kolhozsity.livejournal.com/12908.html
http://www.apsuara.ru/lib_a/abh131.php