La bufala dei 100.000 fucilati dall’NKVD nell’Ucraina occidentale nel 1941

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Di Luca Baldelli

Tra il miliardo di persone sterminate dai senzadio kumunisti sovietici guidati dall’uomo più malvagio della storia, trova posto la narrazione dei 100.000 fucilati nell’Ucraina occidentale nei giorni immediatamente seguenti all’invasione tedesca.
Naturalmente l’incipit è ironico, per la comprensione del significato della parola ironia si veda l’Enciclopedia Trec:cani a questo URL:
Ultima cosa. Da qualche tempo siamo soliti abbinare qualche immagine sia alla presentazione sui social che all’interno, ai nostri articoli, questa volta non lo facciamo per non alimentare, in questo caso si tratterebbe di pornografia dell’orrore, questo feticismo dell’immagine.
Comunque immagini ce ne sarebbero e si potrebbero ritrovare agevolmente nella rete; riguardano gli innominabili massacri perpetrati in quelle terre dai nazisti e dai loro servi, i nazionalisti ucraini.

La bufala dei 100.000 fucilati dall’NKVD nell’Ucraina occidentale nel 1941

Il mito delle deportazioni in massa dei popoli baltici nel 1940/41

Il mito delle deportazioni in massa dei  popoli baltici nel 1940/41

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Di Luca Baldelli

Accanto alla lamentatio sui “crimini staliniani” in Ucraina trova posto quella dedicata ai fascisti baltici che, fra l’altro, parteciparono entusiasticamente al massacro degli ebrei e dei russi nativi all’epoca dell’invasione nazista.
Il compagno Baldelli demistifica quest’altro caposaldo della propaganda anticomunista.

IL MITO DELLE DEPORTAZIONI IN MASSA DEI POPOLI BALTICI NEL 1940/41

Documenti declassificati rivelano la larga assistenza sovietica alla Polonia durante la II Guerra Mondiale.

Documenti declassificati rivelano la larga assistenza sovietica alla Polonia durante la II Guerra Mondiale.

REDAZIONE NOICOMUNISTI

Traduzione di Guido Fontana Ros

FONTE

Poiché la Polonia si accinge a cancellare le tracce dell’Unione Sovietica dalla sua storia, il ministero della Difesa russo ha declassificato dei documenti che registrano il largo aiuto che i sovietici fornirono ai polacchi negli anni finali della II Guerra Mondiale.

I documenti provenienti dall’Archivio centrale del ministero della Difesa russo, “fino ad ora mai pubblicati su fonti disponibili al pubblico” descrivono in dettaglio l’aiuto che la Polonia ricevette dall’Unione Sovietica durante la sua liberazione dai nazisti nel 1944-45. Secondo la documentazione, l’URSS fornì alla popolazione polacca delle aree liberate “cibo, forniture medicali, veicoli, carburante e materie prime per le imprese industriali”. Questi aiuti furono prelevati dalle riserve dell’Armata Rossa sovietica e dai Commissariati dell’URSS, ha affermato il ministero della Difesa nella sua nota.

Nel solo periodo fra il marzo e il novembre del 1945, più di 1,5 miliardi di rubli  in cibo (circa 283 milioni di dollari) ai prezzi del 1945 furono assegnati  per il bene  della popolazione polacca  e per la campagna di semina nel paese”, ha detto il ministero.

Il governo provvisorio della Polonia  fu rifornito di oltre 130.000 tonnellate di cibo, 20.000 tonnellate di cotone, 100.000 tonnellate di pellami e di oltre 2.000 autocarri nella nel secondo e terzo quadrimestre del 1945″, rivela il documento

I documenti dettagliano il rifornimento alla Polonia di 8.000 tonnellate di carne, di semi e attrezzature agricole per la semina. Questi furono accompagnati da ricevute firmate dai riceventi polacchi. Anche l’Armata Rossa fu coinvolta nella ricostruzione delle ferrovie e dei ponti fatti saltare in aria dalle forze naziste in ritirata dalla Polonia.

Il ministro della Difesa ha anche pubblicato un accordo fra il comando militare sovietico e il governo provvisorio della Polonia riguardante il destino delle strutture industriali e delle altre proprietà germaniche abbandonate dai nazisti nel territorio polacco. Il ministro afferma: “Venne annotato che tutti gli impianti e gli equipaggiamenti (tedeschi), senza alcuna eccezione, dovevano essere trasferiti ai polacchi. Il loro smantellamento e trasferimento furono espressamente proibiti”.

Nello scorso giugno, al parlamento polacco è passato un pacchetto di emendamenti legislativi che estendevano il divieto di propaganda comunista o di qualsiasi altro regime totalitario ai nomi di edifici o di siti architettonici. proprio all’inizio di questa settimana, le autorità locali della città di Szcecin [NDT: Stettino] hanno cominciato a smantellare un monumento ai soldati sovietici in accordo alla legge, che pone molti monumenti simili nel paese in stato di pericolo.

L’ambasciatore russo in Polonia, Sergey Andreyev, ha stigmatizzato la “legge per la decomunistizzazione” in un ‘intervista per RT, dicendo: “Quale connessione vi può essere fra questi memoriali e la propaganda comunista? Sono stati eretti in memoria dei 600.000 soldati e ufficiali sovietici che morirono per liberare la Polonia nel 1944-45. Questi sono monumenti a gente che ha salvato la Polonia, perché se non fosse stato per loro, non ci sarebbe stata alcuna Polonia, né comunista, né capitalista. E non ci sarebbe stato alcun polacco.”.

Il ministero russo della Difesa sta pubblicando il documento storico sul suo sito web come parte del progetto digitale  “Memoria contro l’oblio”, mirante alla preservazione dell’esattezza storica e al contrasto dei tentativi di falsificazione della storia.

 

 

 

 

 

Il ruolo dell’URSS nella II Guerra Mondiale (1939-1945)

Il ruolo dell’URSS nella II Guerra Mondiale (1939-1945)

REDAZIONE NOICOMUNISTI

A cura di Guido Fontana Ros

Abbiamo tradotto in italiano un breve scritto (12 pagine) della professoressa di storia contemporanea, Annie Lacroix-Riz, docente all’Università Paris VII – Denis Diderot. Questo testo denso di riferimenti storiografici (l’autrice è una storica, non un gazzettiere dedito alla menzogna e alla propaganda) fa giustizia sommaria delle balle che oggi, anche da chi si dichiara comunista, vengono ripetute e diffuse da legioni di ignoranti e stolti quando non in malafede.

LINK AL PDF DELLA TRADUZIONE

Armir e campi di prigionia sovietici: le bugie della propaganda smontate da fonti insospettabili

Armir e campi di prigionia sovietici: le bugie della propaganda smontate da fonti insospettabili

REDAZIONE NOICOMUNISTI

Di LUCA BALDELLI

L’ARMIR, l’Esercito fascista di occupazione dell’Urss al seguito delle armate naziste, continua a tenere banco nelle ricostruzioni storiche di parte e nelle polemiche che, con scadenza regolare, riaffiorano ogni qualvolta occorre distogliere l’attenzione dalla rinascita della potenza russa e dalla riscoperta dei valori e delle conquiste del socialismo reale, che è poi l’unico socialismo realizzato, con buona pace delle anime candide che coi loro irenismi non hanno costruito non solo il comunismo, ma nemmeno una seria socialdemocrazia di transizione.

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Quanto tutto sembrava andar “bene”…

Sull’ARMIR, come abbiamo avuto modo di constatare varie volte, la confusione regna sovrana: cifre ballerine, oscillanti secondo le modalità del pendolo propagandistico, documenti palesemente falsificati o di dubbia autenticità; testimonianze di comodo, contrastanti tra loro e senza il crisma della minima scientificità ed obiettività. Ci fu un periodo, nel 1992, in cui i tromboni dell’anticomunismo nostrano, addirittura, vollero convincere l’opinione pubblica che i soldati in Urss li aveva mandati a morire Togliatti e non, invece, Benito Mussolini, con le armi e i gagliardetti benedetti dai preti. Negli anni passati, addirittura, è stato scoperto, alle porte di Mosca, un centro per la falsificazione “scientifica” dei documenti d’archivio del periodo comunista, con timbri, carte, bolli e tutto un apparato logistico – materiale approntato per il taroccamento. A denunciare il tutto fu, alla Duma, il Deputato comunista Ilyukhin, guarda caso morto poco dopo, in circostanze assai dubbie… Si esaminarono documenti sulle fosse di Katyn, su Beria, su Stalin, sulle trattative tra Urss e Germania e si riconobbero, inconfutabilmente, le “stimmate” della falsificazione, dell’inquinamento, dell’interpolazione di interi incartamenti. Personaggi al vertice della politica ai tempi di Gorbaciov e di Eltsin, storici, militari, archivisti, furono chiamati in causa e riconobbero le malefatte, ma il manto protettivo della politica compiacente intervenne a coprire tutto. Come si poteva riconoscere, ufficialmente, e dalle più alte cariche dello Stato, che tutta la storia diffusa sul comunismo dopo il 1989 era composta da bufale preconfezionate in modo tale da trarre in inganno persino inossidabili comunisti in buona fede? E’ lecito supporre che, tra i documenti falsificati, ve ne fossero e ve ne siano ancora anche molti riguardanti l’ARMIR, naturalmente costruiti ad arte per accreditare il mito di decessi in massa nei campi di prigionia sovietici (come se, oltretutto, un Paese devastato dai nazifascisti, che aveva avuto anche per mano nostra 20 milioni di morti, fosse tenuto a garantire caviale e champagne a chi l’aveva aggredito!).

A distanza di 70 e più anni, se più o meno siamo riusciti a sapere quale fu la consistenza numerica dell’ 8° Armata italiana in Russia, ossia 230.000 uomini agli ordini del Generale Italo Gariboldi (c’è però anche chi sostiene che il numero sia eccessivo, utilizzato per gonfiare artatamente il numero dei caduti e dispersi), molti sono i margini di incertezza circa il numero effettivo di soldati caduti prigionieri, per via di documenti tra loro contrastanti, in aperta contraddizione. Le autorità russe anticomuniste, dopo il 1991, ci hanno propinato la cifra di 40.000 morti italiani nei campi di prigionia sovietici: una cifra, questa, assurda, che presto si dovette ridurre per evidenti, palesi incongruità. Si trovarono, infatti, ben 6000 nomi ripetuti più volte e si dovette scendere, in prima battuta, a 34.000 nominativi. Dopo anni di ricerche, raffronti e “ripuliture” operate da storici di provata fede anticomunista ed antisovietica, si scese (udite udite!) a 24.200 nominativi e qui il colpo di scena: anche questi 24.200 cognomi, a parte poche eccezioni, non è stato possibile associarli ad una morte certa, effettivamente avvenuta. Si tratta di dispersi per i quali non v’è alcuna notizia sicura, tanto che i familiari ancora vivi, sulla pelle dei quali si è consumata la cinica operazione di criminalizzazione del comunismo, quasi che a mandarli in guerra fosse stato Stalin, hanno alla fine protestato e chiesto i dovuti chiarimenti alle reticenti autorità che il lavoro degli storici avevano “patrocinato“. Naturalmente, da parte del Ministero della Difesa (lo stesso che, assieme alla Procura generale militare, per decenni aveva “dimenticato” negli scantinati e negli “armadi della vergogna“ faldoni interi sui crimini nazisti), non sono venuti mai lumi e risposte soddisfacenti. Una fonte al di sopra di ogni sospetto, Carlo Vicentini, dell’Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia, chiarisce in maniera esemplare come avveniva la registrazione dei decessi:

“la registrazione giornaliera dei decessi era compito dei soldati incaricati del controllo delle presenze: essi annotavano per lo più, solo cognome e nome del morto (qualcuno aggiungeva la classe ed il grado) in base alle dichiarazioni dei compagni di bunker o di baracca”.

I dati compilati frettolosamente, e con larghi margini di errori, data la fonetica sconosciuta ai russi, venivano poi inviati alle autorità centrali, che provvedevano a riscriverli. Ebbene, come vennero riscritti questi nomi? Nel caos della guerra, vi furono comprensibilissime difficoltà logistiche, la disorganizzazione regnava e tutto questo non poté non influenzare la redazione dei registri dei decessi dei campi di prigionia. Come abbiamo sopra accennato, vi furono sbagli anche clamorosi, con ripetizioni frequenti degli stessi nominativi:

le trascrizioni successive di questi dati, fatte manualmente in corsivo (solo di rado dattilografate) hanno quasi sempre mutato il testo iniziale, ammesso che fosse esatto. In base a tali dati sono state redatte, sempre a mano, le schede individuali dello schedario generale di Mosca e queste sono state la base per la compilazione computerizzata degli elenchi giunti fino a noi”.

Moltissimi nominativi forniti dalle autorità russe – si faccia attenzione a questo elemento centrale – non trovavano corrispondenza alcuna negli elenchi dei soldati dispersi sul fronte russo. Anche in ordine ai soldati catturati, i bollettini sovietici del 1943 parlavano di 80/100.000 prigionieri, ridotti poi, chissà perché, a 70.000, poi a 60.000 e anche meno, a seconda delle fonti. Degli 8268 nominativi di deceduti ricondotti al famigerato campo di Tambov, solo per fare un esempio, alla fine ne vennero certificati solo 4053. Insomma, non c’è che dire: un bel groviglio! in queste ambiguità, incongruenze, inesattezze, non è difficile scorgere i segni di una falsificazione volta a deviare l’attenzione da altre scoperte ben più corpose: ricordiamo che, alla fine degli anni ’80, lo storico polacco nazionalista Jacek Wilczur, (il quale, alla faccia degli anticomunisti ululanti contro la Polonia popolare, poté sempre operare in piena libertà sotto la democrazia socialista) scoprì varie tombe ricollegabili ai soldati italiani dell’ARMIR catturati dai nazisti e uccisi in vari modi. La congiura del silenzio cercò di soffocare questo lavoro, poi, quando i suoi strateghi non poterono più farlo, quella congiura si tramutò in deviazione dell’attenzione dell’opinione pubblica mondiale verso i campi di prigionia sovietici e verso i “crimini” dell’NKVD, ovvero verso crimini commessi dai nazisti e addossati all’Urss (Katyn, tanto per citare un caso).

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Propaganda anticomunista

Anche sul numero dei decessi “accertati” di prigionieri, però, la partita è tutt’altro che chiusa: i campi di prigionia sovietici, nei primi tempi (primavera 1943), erano sottoposti ad una vigilanza che definire all’ “acqua di rose“ è una gentile concessione. In un Paese devastato dai nazifascisti e da ricostruire, è evidente che le forze dell’NKVD e dell’Armata Rossa avessero altro a cui pensare, che non piantonare prigionieri italiani smunti, laceri, spesso abbandonati dai loro superiori in grado e, nella maniera più vile e cinica, dai nazisti. Di questo ci offre uno spaccato eloquente un’altra fonte al di sopra di ogni sospetto lo storico Arrigo Petacco, che nessuno può tacciare di simpatie comuniste. Ne “L’Armata scomparsa”, egli scrive:

“l’organizzazione interna (nei campi di Tambov, Khrinovoje, Miciurinsk, Suzdal, Oranki e altri ancora, ndr) era praticamente inesistente. A Khrinovoje, per esempio, il campo era formato da alcune costruzioni adibite in passato a scuderie (…). Anche la vigilanza era relativa: all’interno del campo i prigionieri erano lasciati liberi di scannarsi a vicenda per una coperta o un tozzo di pane. All’esterno poche guardie, immerse nella neve, coperte dal pelliccione da scolta scampanato e lungo fino a terra, voltavano indifferenti le spalle. Il lato che confinava con la steppa o con il bosco non era neppure vigilato o chiuso da un recinto. Tanto, fuggire equivaleva a morire“.

Se la conclusione macabra è una deduzione impropria dell’autore, dal momento che il bosco russo è, da sempre, anche tesoro di preziose risorse alimentari da sempre (si pensi alle battute di caccia e alle raccolte massicce di funghi narrate da un’altra fonte di parte anticomunista, Varlam Shalamov, autore de “I racconti di Kolyma“), Petacco non mente quando descrive il livello di vigilanza presente nei campi sopra richiamati nei primi tempi della loro istituzione. Questo fatto, inoppugnabilmente, rendeva facilissime le fughe di prigionieri; dal momento che, come abbiamo visto, i decessi venivano segnalati alle guardie dagli stessi prigionieri, è consequenziale e logico pensare che la gran parte delle morti annotate nei registri fossero, in realtà, fughe mascherate da decessi da parte dei compagni dei fuggiaschi, i quali avevano buon gioco ad agire così in quanto, il più delle volte, le sepolture avvenivano in maniera sommaria e nessuno tra i guardiani – o quasi nessuno – pretendeva l’esibizione del cadavere. Petacco, però, è illuminante, nel suo racconto, anche rispetto alle modalità di redazione dei registri dei decessi e, nella sua esposizione, approfondisce e va oltre la stessa disamina di Carlo Vicentini, pur da lui citato in cinque pagine della sua opera. Nel capitolo “Il mistero dei dispersi“, leggiamo:

“anche dopo il crollo dell’URSS, quando gli archivi del KGB furono aperti agli inviati del nostro governo, non fu ugualmente possibile venire a capo della vicenda. Risultò infatti che i prigionieri arrivati ai campi venivano registrati al loro ingresso e controllati alla fine di ogni mese. Ma i controllori si limitavano ad elencare dei numeri senza fornire spiegazioni quando quei numeri non corrispondevano. Un esempio per tutti: il 1° maggio del 1943 figurano presenti nel lager n° 188 di Tambov 2500 prigionieri italiani. All’inizio del mese successivo i prigionieri risultano 160. Ma non è spiegata la causa della drastica riduzione. Ossia se sono morti, se sono trasferiti o l’una e l’altra cosa insieme“.

In poche parole, le registrazioni dei morti potrebbero esser state, almeno in certi casi, dettate più da approssimazione e da stime eseguite, che non da una prassi scientifica e rigorosa di registrazione. Certo, le condizioni nei campi di prigionia sovietici non erano idilliache e questo per ovvi motivi; specie nei primi tempi – lo ripetiamo – vi furono difficoltà insormontabili, situazioni ai limiti dell’emergenza, in un Paese saccheggiato e messo a ferro e fuoco dai nazifascisti. Se il pane mancò per lungo tempo, fu per colpa di chi aveva distrutto granai e incendiato kolkhoz e sovkhoz, non certo del potere sovietico che, anzi, fece di tutto per migliorare le condizioni dei prigionieri, portando ordine, rigore, disciplina e regolarità degli approvvigionamenti nei vari campi, dopo i primi mesi tremendi del ’43.

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Propaganda…

Innanzitutto, va detto che molti soldati italiani arrivarono ai campi di prigionia già stremati dai combattimenti, dal “si salvi chi può“ imperante dopo la disfatta dell’ARMIR, con generali e colonnelli fascisti (e anche qualcuno della truppa) che, spesso, alla faccia della solidarietà umana, pensarono a salvare la loro pelle e basta, quando addirittura non bruciarono, d’intesa coi nazisti, depositi di vettovaglie e magazzini con indumenti e altri generi di conforto (le denunce precise ed articolate di Robotti e di altri in questo senso, non furono mai confutate in sede giornalistica e giudiziaria). In secondo luogo, va sottolineato che, specie nei primi tempi, il vero potere all’interno dei campi di prigionia era nelle mani degli stessi militari italiani internati. A dirigere e coordinare tutto, i sovietici, che avevano ben altri pensieri e priorità, collocarono generali, colonnelli, tenenti e soldati anziani. Laddove questi erano umani, comprensivi, onesti e magari pure di fede antifascista, per i prigionieri i patimenti erano meno pesanti; laddove invece vi erano dei fascisti inveterati, che fingevano soltanto davanti agli occhi dei sovietici, per puro opportunismo, di essersi convertiti al credo democratico e al marxismo – leninismo, le traversie e, spesso, le tragedie, erano assicurate per i poveri soldati prigionieri. Cibo distribuito con criteri discrezionali ai loro tirapiedi, soprusi e soperchierie quotidiane, corvè imposte ai compagni di prigionia: nel carniere delle malefatte dei kapò fascisti vi fu ogni nefandezza possibile, e ciò non poté che incidere anche sull’andamento della mortalità nei campi, specie dal febbraio al giugno del ’43. Accanto agli italiani, vi furono i rumeni della Bessarabia che avevano combattuto con l’Asse e gli ungheresi, a distinguersi per crudeltà contro italiani e prigionieri di altre nazionalità. Al contrario di quelli nazisti, però, questi kapò non poterono contare su protezioni in alto loco. Infatti, venute all’orecchio di Stalin e del Vk (b) P le vergogne e i crimini di questi aguzzini e dei loro complici, si abbatté sulle loro teste la mannaia della giustizia sovietica, equa ed inflessibile come sempre. Ancora una volta, affidiamo la narrazione di questi fatti all’anticomunista e antisovietico Petacco ; egli cita, come testimone, nientemeno che don Guido Turla, feroce nemico dell’ideologia comunista e dello Stato sovietico, presente nella Campagna di Russia tra le forze italiane:

“Don Guido Turla riferisce che, in quei giorni ( siamo nella tarda primavera del ’43. Ndr), un fuoriuscito italiano comunista (Vincenzo Bianco?) visitò per la prima volta il campo (quello di Khrinovoje, dove le condizioni di vita erano ai limiti della vivibilità, ndr e promise il suo intervento. Qualche tempo dopo le sentinelle sovietiche informarono i prigionieri che era giunto un prikaz, un ordine: Stalin non vuole più morti. ‘I russi – racconta il cappellano – mi riferiscono quest’ordine e non nascondono la loro paura. Sanno che se qualcuno ha sbagliato ora dovrà pagare‘. Infatti, nei giorni seguenti il comandante del campo e i suoi subalterni furono tutti passati per le armi nel piazzale del lager“.

Altro che tolleranza verso i criminali ! Altro che Stalin complice del lassismo, dei crimini, della corruzione di alcuni funzionari periferici infedeli. L’occhio del Piccolo Padre tutto vedeva e pesava, anche in quei tragici giorni, senza nulla concedere a giustizie sommarie e ad abusi. La superiorità della civiltà sovietica, stava anche nel trattare umanamente chi con una divisa straniera aveva invaso il Paese non per sua volontà, ma perché costretto. E, naturalmente, nell’individuare e colpire i nemici travestiti opportunisticamente da amici, ora che i rovesci dei vari fronti minacciavano l’uragano sulla peste bruna. Si è parlato anche (principalmente per bocca di Don Guido Turla) di atti di cannibalismo compiuti nei campi di prigionia nei primissimi tempi, atti che sarebbero poi stati puniti severamente dai sovietici e dai sorveglianti interni. Su questo terreno, però, preferiamo non entrare e non per ritrosia nel parlare di argomenti certamente scabrosi, macabri e anche velati di bestialità, la bestialità che ogni guerra porta con sé, ma perché sono davvero flebili le prove a sostegno della realtà di simili azioni che, se fossero state davvero compiute, chiamerebbero in causa non certo l’Urss, ma chi aveva portato ovunque fame in terra straniera fino alla disperazione. Anche quando certi fatti rientrano nei documenti sovietici, essi vi rientrano come ipotesi di reato da perseguire, non come crimini certamente commessi e puniti, come pretendono certuni, che allo scrupoloso lavoro filologico di analisi delle fonti preferiscono un sensazionalismo da film horror. Finché i contorni di quei fatti non saranno chiariti, preferiamo, per rispetto umano e per onestà intellettuale, non profonderci in racconti che farebbero la gioia di un Lovercraft, ma non quella di un amante della verità.

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Il campo di prigionia di Tambov in un disegno del 1946 eseguito da Giuseppe Rossi.

Dal momento in cui Stalin impartì l’ordine di portare legalità e rigore nei campi di prigionia, le cose per i soldati andarono sempre meglio. Il numero dei decessi, quali che siano i dati che si intende prendere a riferimento, diminuirono drasticamente e le condizioni di vita divennero accettabili, a volte persino migliori di quelle di tanti cittadini sovietici che, avendo perso tutto per colpa delle belve hitleriane, si ritrovarono a dover costruire tutto da zero, vivendo in capanne, rifugi sotterranei (zemljanki ), parti di stazioni non distrutte ecc. La grande Urss si tolse il pane di bocca per sfamare chi l’aveva occupata e calpestata coi suoi stivali: se i criminali di guerra conobbero l’inesorabile pugno della giustizia operaia e contadina, la truppa, specie italiana, fu trattata con clemenza e sopravvisse solo grazie alla generosità del popolo sovietico, prima e dopo la prigionia. Abbandonati dagli “alleati“ nazisti, i soldati italiani vennero nutriti e scaldati a decine di migliaia nelle izbe di pacifici e umanissimi contadini russi, gente che magari aveva figli e parenti stretti al fronte, ma sapeva distinguere, come solo sa fare il popolo lavoratore, tra capi e gregari, tra guerrafondai e uomini che la guerra la stavano subendo loro malgrado. Molti dei soldati salvati in questo modo da morte sicura, nel dopoguerra non vollero tornare e divennero cittadini sovietici, cambiando nome e cognome: questo fatto, negato da tutta la pubblicistica anticomunista, è invece ribadito e messo in evidenza da varie fonti. L’Italia che li aveva mandati in guerra era, da questi uomini, talmente odiata e disprezzata che, al termine del sanguinosissimo conflitto, essi decisero di voltarle le spalle e di rifarsi una vita nella nuova Patria sovietica. Diverse persone date per morte (ecco l’attendibilità di certi documenti!) furono comprese in certificati di morte presunta, non essendo possibile indicare i loro cadaveri e, d’altro canto, non essendovi prova della loro esistenza in vita dopo il 1944/45 e, in particolar modo, dopo l’ultimo rimpatrio del 1954. In “Lettere dal Don“, di Pino Scaccia, giornalista rigoroso e non certo di fede bolscevico – stalinista, racconta la storia di un villaggio, Filonovo, presso il quale vivono o sono vissute varie donne figlie di soldati italiani; viene poi menzionato un reduce, La Guidara, autore di “Ritorniamo sul Don“ (1963), che parlò di numerosi italiani, ex soldati dell’ARMIR, da lui incontrati nel 1960 in Ucraina vivi e vegeti (li presentò come trattenuti dal regime, ma ciò è ragionevolmente impossibile, visto che poté incontrarli liberamente, senza impedimenti ). Lo stesso Scaccia, nel blog di “Lettere dal Don“ ricorda, in un commento interlocutorio:

“Il caso di Arturo Campalto, il camionista di Vicenza che vive e lavora a Kiev, è sintomatico: nel paese di origine c’è anche il nome nella lapide dei caduti. Ovvio che lo hanno dato per deceduto. E’ sicuro, per esempio, che molti antifascisti sono rimasti in Russia perché in Italia c’era ancora il regime. Una cosa è certa: sia la prima volta che sono stato nella valle del Don che la seconda ho raccolto molte testimonianze che parlavano degli ‘ italiani ‘ “.

Ancora oggi, ammettere che tanti italiani preferirono fingersi morti, e magari produrre documenti in tal senso per avvalorare la bugia, piuttosto che tornare in un’Italia dove i fascisti non mollavano la presa e già si stavano riciclando in massa, è per gli anticomunisti in servizio permanente effettivo un trauma da evitare in ogni modo. Il loro costante rivolgere la testa all’indietro impedisce ogni analisi obiettiva, onesta e spassionata di ciò che fu. Figuriamoci se questi anticomunisti ottusi e subdoli hanno la franchezza e l’onestà intellettuale di un Arrigo Petacco o di un Enrico Reginato o di un Egisto Corradi nel raccontare come si viveva nelle izbe o nei campi dopo le sane misure di “pulizia” disposte da Stalin e dal governo sovietico contro aguzzini, grassatori e criminali! Abbiamo scelto questi tre autori, tutti anticomunisti a mille carati, proprio per rimarcare la differenza tra loro e certa pubblicistica e memorialistica accecata dall’odio antisovietico.

“Per trascorrere le lunghe giornate, – scrive Petacco – i prigionieri si dedicavano al lavoro di ristrutturazione degli ambienti improvvisandosi falegnami o muratori. Altri rileggevano i loro gualciti diari correggendo o aggiungendo impressioni. Di tanto in tanto, all’improvviso, una squadra di soldati invadeva le camerate per periodiche perquisizioni (…). Malgrado la mancanza degli utensili necessari, fioriva l’artigianato. Con l’aiuto di un seghetto sdentato o di un coltello arrugginito, venivano realizzati autentici capolavori: bastimenti, giocattoli, pettini d’osso, fermacapelli, medaglioni, cinghie intrecciate che poi venivano usati come merce di scambio con la popolazione civile. Racconta Carlo Vicentini che due ufficiali riuscirono addirittura a costruire un orologio a pendolo con ingranaggi di legno e rotelle fatte a chiodi. Era anche preciso: tardava di appena un’ora al giorno e il successo fu grande. Dopo il primo ne dovettero costruire altri perché il mercato, fra i russi, tirava molto. Più tardi qualcuno si ricordò di aver ricevuto pochi anni prima una certa istruzione (…) fu così che alla produzione di calzini, carte da gioco e utensili vari, si aggiunse una consistente attività culturale. Un nobile pugliese, di nome Ferrante, cominciò a dare lezioni d’inglese. Un certo Martelli, bolognese, laureando in ingegneria, insegnò ai suoi volonterosi allievi la geometria analitica, i medici dissertarono di anatomia e di biologia. Il tenente Sandulli (…) tenne un corso di diritto civile e costituzionale (…) Un tenente umbro portò a termine un lavoro che pareva irrealizzabile. Intervistando uno per uno i compagni più colti e stimolando i loro ricordi di scuola, riuscì a compilare una storia della letteratura italiana che conteneva i brani più noti della Divina Commedia, del Petrarca, del Boccaccio e del Tasso, del Foscolo, del Leopardi, del Carducci fino a D’Annunzio“.

Un quadro che, incontestabilmente, pone i campi di prigionia sovietici su un terreno ben diverso dai campi nazisti e, anche, dai campi alleati, nei quali i prigionieri morivano come le mosche tra l’abbrutimento, la fame più nera, il più crudele terrore.

L’ufficiale medico degli alpini Enrico Reginato, nel suo libro dal titolo “12 anni di prigionia nell’Urss“, parla, tra l’altro, della festa per il suo compleanno il 5 febbraio del 1946:

“Tutti concorsero con regali e auguri a farmi trascorrere lietamente quella giornata. Ebbi in dono una scatola di sigarette, una saponetta e un paio di calze. Un ungherese mi fece omaggio di un astuccio in legno sul quale era stato artisticamente scolpito il profilo del Monte Cervino. Per l’occasione ci fu anche un pranzetto, che terminò con un brindisi in versi di Italo Stagno (…)“.

Ogni commento ci appare superfluo. Non è tutto: Reginato riconosce che, contro i soprusi di alcuni appartenenti agli organi di sicurezza sovietica, la giustizia del primo Stato operaio e contadino puntualmente riconobbe i diritti dei prigionieri.

“Un secondo sciopero – si legge nell’opera sopra citata – venne iniziato quando i sovietici pretesero di imporci il lavoro. Avevamo accettato di andare nella foresta a spaccar legna, ma ciò non doveva costituire un obbligo. Le stesse autorità russe, in analoghe precedenti circostanze, avevano riconosciuto la facoltà del lavoro volontario per gli ufficiali delle cosiddette piccole nazionalità, cioè per tutti, esclusi i tedeschi. Di fronte alle ingiuste imposizioni del comando piantammo una grana formidabile e riuscimmo ad ottenere l’intervento di un ufficiale di polizia, giunto espressamente dalla capitale della Repubblica dei Mari. La questione fu a lungo dibattuta, con esito conforme ai nostri diritti. L’ufficiale riconobbe che la ragione stava dalla nostra parte“.

Ce lo vedete un uomo di Himmler discutere una controversia di lavoro con gli ebrei dei lager e, alla fine, dar loro ragione dopo una disamina obiettiva del nodo del contendere?
Egisto Corradi, autore de “La ritirata di Russia“, è infine prezioso non per la descrizione dei campi di prigionia, ma per aver sviscerato una per una le menzogne fasciste sulla guerra e i contorni non certo chiari di battaglie pur esaltate ed epicamente assurte a simboli intoccabili dell’immaginario della Campagna di Russia. Egli analizza uno per uno i bollettini fascisti e nazisti sulle operazioni belliche in Urss, mettendo in evidenza le macroscopiche falsità, le montature, le distorsioni sistematiche operate in nome di una propaganda menzognera e criminale . Due esempi, in questo senso:

“21 gennaio 1943. ‘Forti attacchi ovunque respinti. A Stalingrado, i tedeschi lottano eroicamente in condizioni sempre più difficili’ . Da una corrispondenza italiana da Berlino: ‘ L’Armir ha respinto gli assalti talora successivi di ben sette armate sovietiche ‘. (Non si comprende il senso di questa corrispondenza. L’Armir era in dissoluzione)“.

“31 gennaio 1943. ‘Dai giornali italiani: ‘Mussolini nel ventennale della Milizia: Non molleremo mai fino a quando saremo capaci di tenere in pugno un’arma‘ “. (I resti del Corpo d’Armata alpino giungono sulle linee tedesche a nord di Karkov dopo due settimane di ritirata)“.

Un quadro impietoso, quello di Corradi, delle menzogne sulla base delle quali fu scatenato un conflitto immane, bestiale, in odio alla prima Patria che aveva portato al potere i lavoratori, liquidando il giogo dello sfruttamento, e che pertanto era, oltre ad un Paese immenso e ricchissimo, anche un “ cattivo esempio da estirpare“.

Si potrebbe parlare poi delle scuole di antifascismo attivate in Urss per iniziativa del PCI e del VK (b) P, con l’entusiastica partecipazione di esuli antifascisti di indistruttibile fede comunista, primo tra tutti il compagno Paolo Robotti. Si potrebbe raccontare nel dettaglio la gloriosa storia del giornale “L’Alba“, narrare le vicende di tanti prigionieri dell’ARMIR convertiti non certo con la coercizione, ma con la forza dell’esempio e del messaggio liberatore del marxismo – leninismo, alla fede antifascista e progressista… Si potrebbe certamente, ma sviliremmo un capitolo di importanza capitale che preferiamo trattare degnamente in un prossimo studio, sempre con al centro le vicende umane dei protagonisti e fonti al di sopra di ogni sospetto.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI E SITOGRAFICI

Arrigo Petacco: “L’Armata scomparsa“ (Mondadori, 1998)
Enrico Reginato: “12 anni di prigionia nell’Urss “ (Garzanti, 1971)
Egisto Corradi: “La ritirata di Russia“ (Longanesi & C., 1965)
Pino Scaccia: “Lettere dal Don“ (RAI – ERI, 2011)
https://letteredon.wordpress.com/2014/01/29/quelli-che-sono-rimasti/
http://www.plini-alpini.net/wp-content/uploads/html_pdf/Istruzioni_per_consultazione_documentazione_prigionieri.pdf

Zoja Kosmodemjanskaja, eroina dell’umanità.

Zoja Kosmodemjanskaja, eroina dell’umanità.

REDAZIONE NOICOMUNISTI

DI LUCA BALDELLI

“Ogni essere umano che ami la libertà deve più ringraziamenti all’Armata Rossa di quanti ne possa pronunciare in tutta la sua vita”.

Con queste brevi, incisive parole, il sublime scrittore Ernest Hemingway, progressista, antifascista, amico dell’Unione Sovietica, della pace e della mutua comprensione tra gli uomini, sintetizzava magistralmente l’importanza del tributo al primo Stato mondiale degli operai e dei contadini, mettendone in evidenza il contributo incancellabile nella lotta alla tirannide nazifascista e nella difesa del mondo dalle mire guerrafondaie dell’imperialismo. Non sminuiremo certamente l’immortale autore de “Il vecchio e il mare” se, accanto alla sua affermazione vibrante di sincerità e schiettezza, ne collochiamo un’altra, non meno pregnante e realistica:

ogni essere umano che ami la libertà e la pace non può non riconoscere e non onorare, fin nel profondo del cuore, il sacrificio di Zoja Kosmodemjanskaja.

Questa figura è infatti patrimonio non solo dell’Urss e della Russia, terre in cui ogni zolla era ed è impregnata del sangue degli eroi combattenti per la libertà nella Grande Guerra Patriottica, ma anche di tutta l’umanità progressiva, nemica del bellicismo, della reazione, del revisionismo infausto, della negazione dei diritti e della dignità del lavoratore in quanto tale e in quanto persona.

Chi era Zoja Kosmodemjanskaja? Nata da una famiglia di insegnanti nel villaggio di Osino Guj, nella Regione di Tambov, nella zona centrale del bassopiano del Don, il 13 settembre del 1923, Zoja Kosmodemjanskaja compì gli studi prima in Siberia (dove i suoi si erano trasferiti), quindi a Mosca. Sull’onda dell’entusiasmo per l’avanzata impetuosa del socialismo, nel 1938 si iscrisse al Komsomol, la Gioventù comunista sovietica, e si dette da fare in una vasta opera di lavoro sociale e pedagogico volta ad eliminare le ultime sacche di analfabetismo esistenti in Urss, Paese dove il potere socialista aveva insegnato a leggere e scrivere a contadini ed operai che mai avevano tenuto una penna o un libro in mano, conseguendo in pochissimi anni l’obiettivo del 90% di alfabetizzazione, traguardo conquistato dalle società borghesi in un secolo (e con tanto di analfabetismo di ritorno!). Zoja, come tutte le persone “speciali”, non aveva un carattere facile: il suo zelo, il suo fervore militante, furono causa di invidie ed incomprensioni che la fecero soffrire enormemente. Alla fine, però, il bene trionfò ed anche i malevoli aprirono il loro cuore e apprezzarono, come si apprezza un dono particolare, l’infinita umanità della ragazza, autentica e mai affettata negli slanci più profondi del cuore.

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Zoja Kosmodemjanskaja, nome di battaglia Tania

Sul Paese, intanto, si addensava, minacciosa ed oscura, la tremenda nube del nazifascismo, coi suoi folli piani di conquista messi a punto anni prima nel “”Mein Kampf”. Il tragico giugno del ’41 non trovò Zoja impreparata, né titubante, come non trovò né impreparati né titubanti 200 milioni di onesti cittadini sovietici, guidati dal grande Stalin, la cui lampada mai si spegneva nelle concitate notti di riflessione, programmazione, azione per difendere la Patria. L’attività antifascista, rivolta contro l’occupante, marciava senza sosta nel Komsomol e in ogni ambito della società sovietica. Nell’ottobre del 1941 Zoja, assieme ad altri 2000 volontari del Komsomol, raggiunse il proprio posto di combattimento, ingaggiando una lotta per la vita o per la morte contro i barbari invasori che razziavano, uccidevano, deportavano. Il gruppo di Zoja non dette pace al nemico: agguati, attacchi, incendi di avamposti e depositi utilizzati dai nazifascisti per far partire attacchi contro gli inermi cittadini, o per stoccare beni rubati col terrore al popolo, si succedettero da Petrischevo a Gribtsovo, da Pushkino a Korovino e in tutti i villaggi della Regione di Mosca interessati dai più intensi combattimenti. I tentativi dei nazifascisti di creare terra bruciata attorno ai partigiani sovietici, fallirono uno dietro l’altro: l’unità tra tutte le genti dell’Urss contro il feroce invasore era, ogni giorno, più forte che mai e a nulla o a molto poco servivano le minacce, i ricatti, le false promesse.

Quando i nazifascisti, a ottobre – novembre del ’41, provarono a costituire una milizia collaborazionista nei villaggi, per neutralizzare il movimento partigiano e garantire alle loro armate il successo senza intoppi delle barbare azioni pianificate, non trovarono a seguirli che pochi, sparuti elementi rinnegati ed opportunisti, la gran parte dei quali, oltretutto, disertò non appena ne ebbe l’occasione. Uno di questi elementi, la spia Sviridov, per una bottiglia di vodka consegnò Zoja ai nazisti assetati di sangue ed inferociti dall’efficienza militare dei partigiani del gruppo in cui Zoja militava.

La giovane combattente fu interrogata in maniera brutale, con un allucinante corredo di bestiali torture, dagli sgherri nazisti, alla presenza anche di alti militari. Nonostante l’indicibile supplizio, reso ancor più straziante dal coraggio e dall’abnegazione della ragazza, Zoja non si fece uscire dalla bocca alcun nome di compagni e fiancheggiatori: i combattenti della libertà sovietici, che sempre più andavano ingrossando le file dei partigiani, con i mitra, i fucili da caccia, le “molotov” e ogni tipo di arma utile a cacciare le belve naziste, nulla ebbero da temere da questa intrepida amazzone sovietica che andava al martirio serena, con gli occhi pieni di quell’odio per l’ingiustizia, la tirannia, la prepotenza, che è vivido amore dell’umanità.

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Zoja mentre viene condotta al patibolo

Zoja Kosmodemjanskaja venne condotta al patibolo nel villaggio di Petrischevo in un tragico 29 novembre del 1941. Neppure tra i boia del Nuovo Ordine Europeo retto dalle baionette di Hitler, Himmler e Goering e disseminato di cadaveri, Zoja poté però tacere, trattenendosi: anzi, l’inumana violenza che era stata usata sul suo corpo aveva sortito l’effetto di un diluvio di benzina su una fiamma. La giovane, prima di venire impiccata, tra lo sdegno, l’incredulità e la bile dei suoi aguzzini, incitò il popolo con parole vibranti a resistere:

“Cittadini ! Non state in piedi a guardare mentre c’è bisogno di combattenti!”

E ancora:

“Compagni, la vittoria sarà nostra! L’Urss è invincibile e non verrà sconfitta! Stalin verrà! Non possono uccidere 200 milioni di persone!”

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Zoja mentre incita i russi presenti al combattimento

Ciechi di rabbia, incapaci di concepire altro dall’odio e dalla sopraffazione, i carnefici portarono a termine il loro sporco lavoro, compiendo l’esecuzione di Zoja. La fulgida luce dell’esempio di questa eroina, però, era destinato a trionfare! Un esempio unico di sprezzo del pericolo, attaccamento lucido e indefettibile alla verità, alla giustizia, alla libertà, amore inestinguibile per i valori della società socialista, brilla ancora su tutta l’umanità progressiva e ha un nome scritto a caratteri indelebili: si chiama Zoja Kosmodemjanskaja.

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Alexander Alexandrovich Kolesnikov: un dodicenne in guerra

Alexander Alexandrovich Kolesnikov: un dodicenne in guerra

REDAZIONE NOI COMUNISTI

TRADUZIONE DI GUIDO FONTANA ROS

FONTE

I ricordi di un ragazzino non comune: Alexander Alexandrovich Kolesnikov.

A proposito degli attuali socialpetalosi o delle “nostre truppe d’assalto”, come definiva un simpatico rivoluzionario partenopeo un po’ in là con gli anni, gli antagonisti come “Er pelliccia”…

A caccia di carri: come il cannone anticarro sovietico ZiS-3 ebbe la meglio sulla Wehrmacht nazista

A caccia di carri: come il cannone anticarro sovietico ZiS-3 ebbe la meglio sulla Wehrmacht nazista

REDAZIONE NOICOMUNISTI

TRADUZIONE DI GUIDO FONTANA ROS
 
Zis-3 in agguato in ambiente urbano
75 anni fa, nel febbraio 1942, l’Armata Rossa concludeva le prove del Zis-3, cannone divisionale da campagna da 76 mm che sarebbe diventato il sistema d’artiglieria più prodotto nella storia umana.
Come ha spiegato l’analista militare Sergei Varshavchik in un recentearticolo per la RIA Novosti, lo Zis-3 divenne la minaccia per eccellenza sia per i veicoli corrazzati che per la fanteria degli avversari.

Dopo l’invasione nazista dell’Unione Sovietica del giugno 1941, il compito di arrestare la principale forza d’urto della Wehrmacht, vale a dire la Panzerwaffe, ricadde sui reparti di artiglieria. Nel 1941, il cannone anticarro più diffuso nell’arsenale sovietico era il M 1937, un cannone semiautomatico da 45 mm. Questo cannone poteva agevolmente perforare una corazza da 50 mm a 500 metri, mentre la sua leggerezza e il suo basso profilo lo rendevano sia manovrabile che bersaglio difficile da centrare per i carri nemici.

 

Anticarro M 1937 in azione
Sfortunatamente le prime battaglie mostrarono che le caratteristiche progettuali del M 1937 esponevano molto gli artiglieri al fuoco di controbatteria dei mortai e dell’artiglieria.
ZiS-2 da 57 mm
Al principio della guerra, l’Armata Rossa aveva a sua disposizione un’altra arma anticarro: lo Zis-2 da 57 mm. Questo cannone presentava di suo alcuni problemi, per cui i progettisti rapidamente compresero che era troppo potente per il compito cui era destinato e troppo caro per essere prodotto in massa. Lo ZiS-2 fu tolto temporaneamente dalla produzione alla fine del 1941. In seguito, a causa del’introduzione da parte dei tedeschi di carri pesanti e di semoventi, la produzione dello ZiS-2 riprese nel 1943, quando il cannone fu installato su carri o su semoventi di artiglieria.

 

Allo stesso tempo le unità divisionali anticarro avevano necessità di qualcosa di meno costoso ma con caratteristiche analoghe. Inoltre 36.000 cannoni erano andati perduti nel primo anno di guerra ed era necessario rimpiazzarli velocemente.

Zis-30 SPAG 57mm
Varshavchik notava che, dal punto di vista strutturale lo Zis-3 era simile allo ZiS-2. L’ingegnere militare Vasily Grabin aveva cominciato a lavorare intorno all’arma prima che la guerra cominciasse. All’epoca il quarantaduenne progettista aveva completato il cursus studiorum alla facoltà di Artiglieria presso l’Accademia tecnica-militare Dzerzhinsky e trascorso parecchi anni a lavorare in fabbriche di artiglierie, dove aveva l’incarico di elaborare progetti di nuovi tipi di artiglierie.
Lo ZiS-2 sul T-34
 Negli anni ’30, Grabin sviluppò un modo ergonomico per abbreviare la fase della progettazione per la creazione di artiglierie pesanti. Il metodo di Grabin permetteva di sviluppare nuovi sistemi nel giro di mesi e talvolta perfino di settimane. Le sue tecniche permettevano ai progettisti e agli ingegneri di risparmiare un bel po’ di fatica, energia e metallo, senza compromettere la qualità.
Nella fase di progettazione del ZiS-3, Grabin immediatamente mise in opera il suo metodo per una potenziale produzione di massa. Questo richiese la riduzione dei passi necessari per costruire il cannone; la fabbricazione di alta qualità dei grossi componenti, la produzione di massa e la standardizzazione dei componenti, permisero la riduzione di questi ultimi da 2080 a solo 1.306; questo permise di produrre i cannoni più velocemente e a minor costo, senza alcuna riduzione di qualità.
Alla vostra sinistra lo ZiS-2 e alla vostra destra lo ZiS-3 riconoscibile dal freno di bocca
Il rinculo del cannone era ammortizzato di un buon 30% da un freno di bocca. Paragonato al suo predecessore, il ZiS-3 era un buon 420 kg di meno, aveva minori tolleranze ed era concepito per permettere alla squadra di 7 serventi di concentrarsi sui loro compiti specifici, abbreviando il tempo di sparo.
Batteria di ZiS-3

Letteralmente collaudato sul campo di battaglia 
Un contingente di preproduzione di ZiS-3 fu inviato al fronte nel dicembre 1941 a 2 battaglioni di artiglieria, occasione in cui il nuovo pezzo di artiglieria dimostrò le sue impressionanti capacità. Questa letterale “prova a fuoco” sul campo di battaglia permise a Grabin di presentare personalmente, nel gennaio 1942, questo nuovo sistema d’arma al Commissario del Popolo alla Difesa, Joseph Stalin; Stalin in persona firmò ufficialmente l’ordine per la produzione in serie del cannone poco dopo.
Lo ZiS-3 sarebbe diventato una delle armi più versatili del Fronte Orientale. Il cannone era pensato per eliminare fanteria, mitragliatrici, artiglieria, carri e blindati nemici e per distruggere postazioni. Proprio per la diversa tipologia di bersagli, il cannone fu concepito per sparare diversi tipi di proiettili, da quelli ad alto esplosivo in grado di distruggere muri di mattoni spessi 75 cm, a quelli a carica cava che potevano penetrare, bruciando, una corazza spessa 90 mm.
Varshavchik ha ricordato che in seguito alla consegna all’esercito, lo ZiS-3 ricevette una serie di nomignoli. Alcuni come prova di affezione gli affibbiarono un nome femminile come Zoya, altri considerando il suo rateo di fuoco e le sue eccellenti caratteristiche di combattimento, lo chiamarono raffica di Stalin. Anche la Wehrmacht diede al cannone un nomignolo: “Ratsch-bumm”; ratsch da rumore dell’impatto del proiettile sul bersaglio e bumm dal rombo dello sparo che arrivava successivamente essendo il proiettile supersonico.
Paragonando lo ZiS-3 ai propri pezzi da 75 mm, i progettisti tedeschi conclusero che l’arma sovietica fosse superiore in numerosi parametri di valutazione. Inoltre la concezione dello  Zis-3 gli permetteva di sparare proiettili più pesanti di circa il 13% di quelli tedeschi e l’aumentata gittata gli permetteva di colpire da più lontano.
Altro fattore importante, come ci fa notare Varshavchik, era che lo ZiS-3 non aveva la tendenza di affossarsi nel terreno durante lo sparo come succedeva alle sue controparti tedesche. Questo permetteva alla squadra di serventi di fare fronte rapidamente a minacce proveniente da altre direzioni e di rischierare velocemente in batteria il cannone secondo le necessità dell’avanzata della fanteria.
A partire dal 1942-1943, a distanze varianti dai 700 ai 900 metri , lo ZiS-3 facilmente metteva fuori uso quasi la totalità dei mezzi corazzati di cui disponeva la Wehrmacht.
In seguito, a partire dal 1943, con la comparsa dei Tiger, dei Panther e dei pesanti semoventi tedeschi, i serventi degli ZiS-3 si trovarono nell’impossibilità di penetrare frontalmente quel tipo di nuove corazzature.
Panther distrutto. La torretta staccata però indica che probabilmente fu colpito da un Su-152
Nondimeno trovarono una soluzione che permetteva di aggirare il problema: usando tecniche di imboscata [ndt: in questo articolo il racconto di un’imboscata contro i carri Tigre], colpivano il nemico dai fianchi e da dietro dove la corazzatura era più sottile. Inoltre con la comparsa di proiettili perforanti e a carica cava, le capacità anticarro dello ZiS-3 aumentarono ulteriormente, permettendo a cannone di forare facilmente a 500 metri una corazza da 80 mm.
Nel 1943, lo ZiS-3 fu collocato sul telaio del carro leggero T-70, creando così il semovente Su-76. Il debutto di questo semovente avvenne nella battaglia di Kursk, l’ultimo tentativo da parte dei nazisti di effettuare un’offensiva nel territorio sovietico.
Su-76M
Nel periodo del 1943-1945, oltre 14.000 Su-76 e Su-76M furono prodotti. Si tratta del semovente sovietico prodotto nel maggior numero di esemplari nella Seconda Guerra Mondiale. Allo stesso modo con 48.000 esemplari, lo ZiS-3 fu il pezzo di artiglieria più prodotto nella storia.
Infine, Varshavchik ha suggerito che insieme al carro medio T-34, all’aereo da attacco al suolo Il-2, lo Zis-3 è uno dei più luminosi simboli della vittoria dell’Armata Rossa nella Grande Guerra Patriottica.

Lo “stupro della Germania” da parte dell’Armata Rossa fu inventato da Goebbels

Lo “stupro della Germania” da parte dell’Armata Rossa fu inventato da Goebbels

REDAZIONE NOICOMUNISTI

ATTENZIONE: immagini e contenuto che possono ferire la sensibilità di alcuni.
Questa traduzione è stata scritta da Mosca Exile, su Russian Spectrum nella rubrica Storia il 9 maggio 2013 ed è contrassegnata da etichette come  militare, stupro, Unione Sovietica, Seconda Guerra Mondiale. 
In un’intervista alla Komsomolskaya Pravda, la professoressa russa di storia Elena Sinyavskaya, in una discussione con Alexey Ovchinnikov, contesta la provenienza materiale degli stupri in Germania da parte dell’Armata Rossa
Tutti i diritti riservati all’autore.
Negli ultimi anni il Giorno della Vittoria ha purtroppo acquisito una tradizione non molto piacevole: quanto più ci si avvicina alla ricorrenza, tanto più si ha a che fare con ogni sorta di “ricercatori” che prendono a diffondere il mito di “Germania stuprata”
In questo modo, nel corso degli anni, il numero delle vergini tedesche, vittime presumibilmente dell’Armata Rossa, non fa che crescere. Ma a chi giova che il soldato russo rimanga nella memoria nazionale non come liberatore e protettore, ma come stupratore e delinquente? Abbiamo parlato di questo con un prominente ricercatore presso l’Istituto di Storia Russa, dell’Accademia Russa delle Scienze, con la Dottoressa in Scienze storiche, professoressa Elena Sinyavskaya.
“I nazisti intimidirono la gente al punto che alcuni si suicidarono”
Elena Spartakovna, tutto questo è forse il risultato di una rilettura? Quegli anni hanno generato un sacco di spazzatura…
Non proprio. Questa brutta storia inizia molto prima, con la propaganda di Goebbels, quando venne annunciato alla popolazione che l’Armata Rossa stava brutalmente violentando tutte le donne tedesche di età compresa tra gli 8 e gli 80 anni. E le persone ne furono talmente impressionate che alcuni attivisti del partito nazista uccisero le famiglie prima di suicidarsi.
Allora, perché fu necessario ricorrere a una tale immagine?
In primo luogo per aumentare la resistenza della popolazione contro l’avanzata dell’Armata Rossa e in secondo luogo per far sì che la popolazione abbandonasse i territori perduti e quindi non potesse essere di alcun aiuto alle forze armate sovietiche.
La linea di Goebbels fu poi proseguita nello stesso anno del 1945 da parte degli alleati, quando fecero la comparsa le prime pubblicazioni apparse in cui si cercava di rappresentare l’Armata Rossa come un esercito di saccheggiatori e stupratori, tacendo assolutamente sui crimini che stavano accadendo nella zona occidentale di occupazione. Con l’inizio della “guerra fredda”, il tema fu esagerato, ma non in modo così aggressivo e massiccio come cominciò a verificarsi negli ultimi venti anni. I numeri delle persone “violentate” erano inizialmente modesti: oscillavano dalle 20.000 alle 150.000 in Germania. Ma nel 1992, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, in Germania fu pubblicato un libro di due femministe, Helga Zander e Barbara Jor, The Liberators and Liberated, in cui per la prima volta si arrivò a una cifra di 2 milioni. Inoltre questa cifra fu fatta derivare da una premessa del tutto sbagliata: i dati statistici per gli anni 1945-1946 furono raccolti in un ospedale di Berlino in cui erano nati circa 500 bambini all’anno e in circa 15-20 casi, alla voce “nazionalità del padre” era rubricato “russo”. Inoltre, due o tre di questi erano classificati come “violenza carnale” Cosa fecero queste “ricercatrici”? Giunsero alla conclusione che tutti i casi in cui il padre era russo fossero il risultato di violenze carnali. Poi la formula di Goebbels degli  “8-80 anni” fu semplicemente scomposta. Tuttavia la distribuzione di massa di queste statistiche ha avuto luogo nel 2002 con la pubblicazione del libro di Anthony Beevor La caduta di Berlino, che fu qui pubblicato nel 2004 e il fantasioso dato statistico “2 milioni” fu poi tirato fuori dai mass media occidentali alla vigilia del 60° anniversario della Vittoria.
I tedeschi sono stanchi di pentirsi.
Si può capire quelli che battevano su su questo argomento durante gli anni della “guerra fredda”, ma poi cadde il muro di Berlino e, secondo Gorbaciov, vennero stabilite “la pace e l’amicizia”…
Le realtà geopolitiche sono cambiate. Da un lato ci sono stati tentativi di rivedere i risultati della seconda guerra mondiale, più il desiderio di rimuovere l’Unione Sovietica (e la Russia come suo successore legale) dalla parte vincitrice vittorioso insieme a tutto il bene che è associato con essa. Questo è stato uno dei passi che condussero a che in un certo numero di deliberazioni delle istituzioni europee, compreso il Parlamento europeo, vi fu l’equiparazione dello stalinismo con il nazismo, dove l’aggressore e l’aggredito furono posti sullo stesso piano, spostando le colpe e le responsabilità in modo da costringerci a pentirci per qualcosa che non avvenne mai.
Non vi sembra che questi “ricercatori” non abbiano scritto questi saggi di loro iniziativa, ma su commissione di chi creato questa nuova visione geopolitica? 
Ovviamente. La seconda ragione è che il mito è piacevole per l’Occidente – alla psicologia del popolo tedesco, che è stanco di sentirsi in colpa. Già sentiamo la generazione attuale dire: “Beh, perché dobbiamo pentirci per il peccato dei nostri antenati?”. Con questa generazione è sorta un’ondata di un sentire comune che la coscienza nazionale stia cercando di affermare l’idea che i loro antenati non fossero colpevoli; che non c’è una responsabilità collettiva tedesca … Questo è dove l’ordine geopolitico si fonde con i sentimenti delle masse.
Lasciamo da parte la vendetta!
Cosa realmente accadde a queste persone violentate?
Non possiamo dire che queste cose non siano accadute. Ci sono stati stupri, ma non sulla scala di cui si parla oggi. Nei documenti tali fatti sono considerati come “eventi straordinari ed eventi immorali”. La leadership del paese e l’alto comando credevano che non solo questi fatti creassero una cattiva immagine dell’Armata Rossa, ma che anche ne minassero la disciplina. E combatterono contro questi atti con tutti i mezzi disponibili, a cominciare con il lavoro politico di partito, con spiegazioni per finire ai processi e alla fucilazione dei saccheggiatori e degli stupratori.
Ci sono statistiche?
Purtroppo, non tutti i documenti sono stati declassificati, ma grazie a quelli che lo sono stati, siamo in grado di calcolare l’entità del fenomeno. Ecco una relazione del procuratore militare del 1° Fronte Bielorusso, sugli atti illeciti diretti contro la popolazione civile durante il periodo che va dal 22 aprile al 5 maggio 1945. Le 7 armate del Fronte consistevano di 908,500 persone e furono registrati 124, tra cui 72 stupri. Solo 72 casi su 908.500…
I vostri avversari hanno scritto che un’ondata di stupri si verificò prima della presa di Berlino…
Il 20 aprile comparvero direttive per un cambiamento di atteggiamento nei confronti della popolazione civile tedesca e dei prigionieri di guerra. Quindi qui abbiamo i nostri avversari che si concentrano sul fatto che l’ordine era arrivato troppo tardi, che durante tutto il periodo dell’inverno e all’inizio della primavera del ’45 l’Armata Rossa godette dell’impunità. Questo non è vero. Perché oltre a questo ordine ed altre successive direttive, ci furono ordini specifici a livello di Fonte, di Armata e a livello di singola unità che furono emanati prima che l’Armata Rossa entrasse nel territorio di altri Stati. Furono distribuiti opuscoli narranti la storia del paese, la sua cultura e le tradizioni locali. Nel gennaio del ’45, fu dato ordine a Konev, Rokossovsky e Zhukov, di controllare ogni sentimento di vendetta diretta [che quelli sotto il loro comando dovevano] e di prevenire eventuali incidenti che sarebbero stati interpretati in modo negativo.
E questo come fu percepito dai soldati? Dopo tutto, molti avevano perso i propri cari a casa; un sentimento di vendetta era stato generato in mezzo a loro. Ricordate Ilya Ehrenburg e il suo “Ammazza i tedeschi!” E poi arrivati nella tana [della bestia], tutto ad un tratto fu detto loro di “mettere da parte la vendetta”…
Naturalmente molti non rimasero soddisfatti di queste spiegazioni per quanto riguarda questo nuovo atteggiamento verso la vendetta. Nei rapporti dei commissari politici vi sono registrate conversazioni tra soldati che mal sopportavano questi ordini: “Prima dicono una cosa, poi un’altra e perché dovremmo provare pena per i tedeschi come se si fossero comportati bene sul nostro territorio”… Ma misure disciplinari dure sulla da un lato e l’amore russo per i bambini, dall’altro (anche i tedeschi riconobbero che i nostri soldati erano molto buoni con i bambini tedeschi e li sfamavano non solo prendendo dai magazzini centrali di cibo, ma anche dalle loro razioni, a volte dando loro tutto ciò che avevano) impedirono che avessero luogo atti di vendetta. Ma la cosa principale, che veniva sottolineata a tutti i livelli, è che nelle azioni “non dovremmo essere come i tedeschi”.
Lo storico Yuri Zhukov ha sostenuto che lo stupro e altri crimini furono per lo più perpetrati non da soldati dell’Armata Rossa, ma da ex soldati dell’Armata Rossa appena liberati dai campi di concentramento e dai civili che erano stati deportati in Germania…
Sì, essendo in attesa di rimpatrio, non erano sotto alcun controllo o  comando, e in genere erano piuttosto una folla eterogenea di rimpatriandi. Formarono bande e iniziarono a derubare la gente del posto, al fine di compensare le umiliazioni che avevano sofferto e poiché questo avvenne nella zona di responsabilità delle truppe sovietiche, tutto questo fu attribuito ai nostri soldati. Ci sono altre prove documentali di alleati che, liberati dai campi, si buttarono in saccheggi a Berlino, riempiendo vecchie auto con rottami e a cui, quando uscivano dalla città, veniva detto di riportare indietro quello che avevano preso. Un altro punto: negli stessi rapporti dei procuratori militari si è spesso affermato che furono esaminati casi in cui il presunto stupro non era stato confermato, in cui i comandanti dovettero punire degli innocenti. C’è un interessante diario lasciato dal corrispondente australiano Osmar White, che aveva accompagnato l’esercito americano e che aveva visitato tutte le zone di occupazione. Non provava molta simpatia per noi, ma sostenne che l’Armata Rossa, a differenza degli Alleati, era molto disciplinata; che l’amministrazione sovietica fu molto efficiente non solo nelle azioni di contrasto alla criminalità, ma anche nel campo della rigenerazione urbana e del rifornimento dei beni vitali; e tutti gli orrori che raccontavano dei nostri soldati erano, da un lato, voci e pettegolezzi, e che, dall’altro, questi crimini erano per lo più commessi da coloro che erano in attesa di rimpatrio.
I tedeschi fuggirono dagli anglo-americani verso i russi…
E in quei territori, le donne come si rapportavano con i nostri soldati?
Oh, si potrebbe scrivere un trattato intero su questo argomento. Prima di tutto, vi era una differenza colossale di mentalità. Tutte queste storie che i soldati, in particolare quelli provenienti dalle aree rurali, fossero stati scristianizzati e per definizione fossero inclini alla lussuria, sono sciocchezze. Al contrario, la maggior parte di essi era stato allevata nella tradizione patriarcale; per loro era un comportamento semplicemente animale che ungheresi e austriaci avessero abitualmente numerosi rapporti sessuali prima del matrimonio. Quale tipo di donna poteva fare così? Era incomprensibile per la mentalità di un soldato russo. Non dovrei dirlo, perché ciò implicherebbe una certa avversione per queste donne. I comandanti erano in uno stato di shock. Ci sono un sacco di rapporti documentati di gruppi di donne che, guidati dalla loro “Madame”, subito offrivano i loro servizi sessuali non appena fossero entrati in contatto con un villaggio. In tutti questi casi la reazione dei nostri ufficiali era arrabbiata e offensiva. Inoltre è stato spesso rivelato che i nazisti acconsentivano in particolare ad un certo numero di donne affette da malattie veneree di far sì che i soldati diventassero inabili al servizio. Non è forse anche questo parte integrante della “Germania stuprata”?
In Romania e Ungheria i nostri soldati visitarono i bordelli, ma, di regola, non molto numerosi: vi andarono per curiosità ricavandone sentimenti spiacevoli e un senso di disgusto e di confusione. L’idea stessa di comprare un’altra persona non si adattava alla mentalità di un uomo sovietico.
Non dimentichiamo che esisteva il fenomeno molto comune della prostituzione militare. Sono conservati diari di donne tedesche, dove filosoficamente sostengono che la prostituzione è una professione alquanto rispettabile. Era molto comune, soprattutto nella zona occidentale di occupazione, dove i tedeschi, tra l’altro, erano riforniti molto scarsamente di alimenti (in contrasto con la zona sovietica, dove i bambini fino a 8 anni di età ricevevano anche il latte). La razione giornaliera tedesca era inferiore a una colazione all’americana. Naturalmente le donne furono costrette a guadagnarsi da vivere nel modo ben noto. Ci furono abbastanza casi di questo tipo di stupro. E se i tedeschi affermarono di aver subito violenza, questa accusa non fu diretta contro di noi, ma contro gli Alleati, da cui i tedeschi terrorizzati fuggivano in massa verso la zona di occupazione sovietica.
E come, tra l’altro, i comandanti statunitensi reagirono ai crimini dei loro subordinati?
Spesso scelsero di non prestare attenzione a loro. I diari dello stesso Osmar White ci dicono che i crimini contro le donne tedesche erano diffusi e che in nessun modo erano contrastati dai comandanti americani; che se avveniva qualsiasi tipo di reazione, accadeva solo per gli stupratori negri.
Razzismo?
Sì. Nella mente degli ufficiali degli Stati Uniti, i negri non dovevano osare alzare una mano contro una donna bianca; se l’avessero fatto, sarebbero stati trattati nel modo consueto degli Stati Uniti. Era diverso per le truppe francesi. Al Senato USA dopo la guerra fu descritto il comportamento dei senegalesi a Stoccarda. Le cifre citate dicono che  in uno o due giorni ci furono circa tremila violentate solo nell’area urbana di Stoccarda. Ancora oggi gli italiani sostengono che l’esercito anglo-americano fu responsabile per le atrocità che hanno avuto luogo sul territorio italiano e che furono commesse dai marocchini. Questi uomini violentarono non solo le donne, ma anche i giovani…
I “goumiers”, le truppe marocchine combattenti per i francesi che si resero responsabili di feroci stupri nell’Italia meridionale
Trofei – pezze di tessuto ed aghi
Siamo anche accusati di saccheggio. Quei trofei, tra l’altro: da dove vengono?
Questo è molto interessante. Ci sono intere documentazioni asserenti che furono soprattutto gli anglo-americani ad essere impegnati in saccheggi e secondo un programma ben organizzato: i beni erano caricati su navi e gradualmente questo cominciò a causare ingorghi nei porti. In sostanza essi stavano raccogliendo un vasto assortimento di cose di vario valore. Per quanto riguarda l’Armata Rossa, c’era qualcosa che si può definire  “baraholstvo” [cianfrusaglie].
Di cosa si tratta?
Non era una questione di rapina, ma di raccolta di beni abbandonati in: in case aperte, negozi distrutti, valigie abbandonate… anche quando stavano combattendo e durante le pause nei combattimenti. Ogni tanto i loro comandanti lasciavano inviare dei pacchetti a casa. Ma non spedivano orologi con diamanti incrostati, ma ciò che era necessario in un’economia devastata dalla guerra: set di aghi da cucito – potevano essere scambiati per una buona selezione di prodotti alimentari; pezze di stoffa, perché non c’erano indumenti a casa; molti utensili venivano spediti: martelli, pinze, pialle: le truppe in prima linea sapevano che sarebbero presto tornati a casa e avrebbero avuto bisogno di qualcosa per ricostruire i loro villaggi bruciati. Non si può puntare il dito contro di loro per aver fatto questo. In tutte le lettere allegate ai pacchi, i soldati cercavano di giustificare se stessi davanti alle loro mogli ed ai loro parenti per essersi impossessati di questi stracci e di questa spazzatura. Erano molto disgustati verso se stessi per aver fatto un atto del genere…
A proposito, vi ricordate la famosa foto scattata al Reichstag, discussa su Internet di recente, in cui su uno dei polsi dell’ufficiale ci sono due orologi?
Ho avuto quella foto per un po’ di tempo. In realtà si tratta, credo, di un orologio e una bussola l’ufficiale comandante indossa. E vi ricordate la foto, in cui un soldato sovietico sta derubando una berlinese dalla sua bicicletta e di come i liberali del Web urlavano al saccheggio? Ma ciò che viene mostrato è un soldato che sta confiscando una bicicletta necessaria all’esercito. Vedete la differenza nel modo in cui questa azione viene vista?
La storia viene cancellata poco a poco…
Tra l’altro, per quanto riguarda i liberali di nostra produzione: che interesse hanno a mentire sui propri nonni? 
In realtà ci sono persone che sono pienamente consapevoli di ciò che stanno facendo. Diciamo che c’è un prezzo, anche se non stiamo necessariamente parlando di una ricompensa finanziaria. Ci sono altri mezzi di incoraggiamento: un viaggio all’estero, borse di studio, la cittadinanza… ma c’è anche un ampio strato di professionisti di Internet che stupidamente ripetono una bugia andando dietro il primo gruppo. Le loro menti sono così confuse che sono disposti a credere qualsiasi sciocchezza.
E sono coinvolti in questo, non solo i cricetini della Rete ma anche gli intellettuali. E’ il caso di un docente dell’Università federale del Caucaso del Nord, Pavel Polyan, che parlando da una stazione radio molto liberale, alla domanda della sorte toccata ad alcune delle nostre donne che avevano avuto relazioni intime con gli occupanti. Egli dice: “Ci sono stati stupri, ma non ci fu una massiccia ondata di stupri. In ogni caso, non sono commisurati agli ai stupri di massa, che l’Armata Rossa perpetrò impegnata all’entrata in Germania… “. A proposito, c’è molto disaccordo tra gli storici russi su questo tema?
Non voglio focalizzarmi in particolare su alcuni colleghi. Ci sono gli storici della comunità professionale, e ci sono persone che lo sono diventati: li chiamiamo quelli della “storia folk” e sono dei dilettanti che cercano di imporre il loro punto di vista sul pubblico. Così, tra i professionisti non ci sono differenze di opinione su questo argomento e non ci possono essere…
Questo è un tentativo di privare la gente della loro storia
E’ già abbastanza grave che l’immagine di un soldato russo ubriaco e predatore appaia nei film occidentali, ma noi stessi fare la stessa cosa nei nostri propri film!
Questo non è cominciato ora. Ricordate quanti di questi film ci furono dopo il crollo dell’Unione Sovietica. E le prime immagini che ha mostrato la guerra non dal punto di vista degli insulti, ma da un punto di vista patriottico, è venuto solo nel 2002, con “Zvezda” [The Star]. Tutto ciò che è venuto prima era pieno di miti circa la tirannia di Stalin, il NKVD “sanguinario”, lo SMERSH, il servizio speciale che, a quanto pare, fucilava solo buoni agenti  nelle retrovie e terrorizzava le truppe. E siamo stati nutriti dall’idea che la vittoria fosse arrivata nonostante la nostra dirigenza, e da una serie di film in cui si poteva percepire la suggestione nascosta che forse possiamo non aver vinto veramente…
La ragione di ciò?
La Grande Guerra Patriottica [in Occidente: La guerra russo-sovietica 1941-1945, il Fronte orientale (Europa) della Seconda Guerra Mondiale] è ancora nella nostra storia; è l’episodio che unisce le persone, e non è solo nostra, ma riguarda le altre nazioni dell’ex Unione Sovietica. E quando il 9 maggio si cerca di cancellare dalla memoria o di offuscarla, lo scopo di questo è abbastanza ovvio: si tratta di un tentativo di privare la gente della loro storia e per dimostrare che non abbiamo passato di cui essere orgogliosi. Se la maggior parte della popolazione non può vedere questo, allora queste persone non avranno futuro. La comprensione della storia della Grande Guerra Patriottica è da tempo trasformata in un grande campo di battaglia dell’informazione.
Stiamo perdendo questa battaglia?
In generale, sì.
Perché gli storici non si oppongono a questi attacchi alla nostra storia? Perché lo Stato non dice nulla circa la necessità di proteggere la storia dalle falsificazioni e perché nei i film i soldati russi continuano ad apparire come bestiame congelato e perché i liberali tranquillamente continuano a trasmettere sui canali del governo sui “crimini” dell’Armata rossa…
Volete sentire quello che penso su questo? Perché non c’è davvero alcuna azione anti-falsificazione a livello statale. E bisogna essere davvero duri su questo problema. E la cosa dovrebbe essere portata avanti dalla persona che sta in cima. Uno degli imperatori russi, Nicola I, dopo aver in qualche modo scoperto che a Parigi dovesse andar in scena una piéce che infangava il nome dell’esercito russo, chiese che non venisse eseguita. E quando il re di Francia si rifiutò di farlo, sostenendo la libertà di espressione artistica, l’imperatore russo rispose “Beh, ti manderò un pubblico di un milione di persone vestite nei loro cappotti militari, che lo fischieranno. La rappresentazione fu immediatamente annullata…
Potete immaginare qualcuno negli Stati Uniti “per un empito dell’anima” fare un film in cui i soldati americani in Germania solamente stuprano, rubano e bevono?
Credo che sarebbe stato il loro ultimo film nella loro carriera di registi o di scrittori… Essi sono strettamente monitorati nelle manifestazioni di tali “libertà”. Si rendono conto di quanto sia pericoloso. Non solo: la ricerca su questo argomento, se viene conservata, non viene pubblicizzata. Tra l’altro, nel 1989, fu pubblicato il libro Other Losses dell’autore canadese James Baca, che ha sostenuto che nei campi nella zona americana di occupazione oltre un milione di prigionieri di guerra tedeschi erano morti di fame. E’ stato subito preso di mira dai suoi colleghi e ha annunciato di essere quasi un pazzo…
Da fonti di prima mano.
Testimoni oculari della Germania del 1945
“… Alla fine del primo giorno del mio soggiorno a Berlino, ero convinto che la città fosse morta. Gli esseri umani proprio non potevano vivere in questo mucchio terrificante di detriti. Alla fine della prima settimana cominciò a cambiare. La società stava tornando in vita tra le rovine. I berlinesi iniziarono a ricevere cibo e acqua in quantità sufficiente per sopravvivere. Sempre più persone venivano impiegate nelle opere pubbliche, sotto la guida dei russi. Grazie ai russi, con la loro vasta esperienza nel trattare con problemi simili nelle loro città devastate, la diffusione di epidemie era stata messa sotto controllo. Sono convinto che i sovietici fecero in quei giorni di più per la sopravvivenza di Berlino di quanto gli anglo-americani avrebbero mai potuto fare se fossero stati nella posizione dei russi…”
“… Dopo che gli scontri si erano trasferiti sul suolo tedesco, furono i commessi molti stupri da parte dei soldati, sia da parte delle truppe di prima linea e di coloro che venivano subito dietro di loro. Il numero [di questi stupri] dipendeva dall’atteggiamento degli alti ufficiali nei loro confronti… Avvocati riconobbero che a causa di atti sessuali crudeli e perversi perpetrati su donne tedesche, alcuni soldati furono giustiziati dal plotone di esecuzione, in particolare nei casi in cui erano coinvolti negri. Tuttavia, so che molte donne furono violentate da americani bianchi. Non è stata intrapresa alcuna azione contro questi criminali…”
“… Nell’Armata Rossa, una rigorosa disciplina prevale. Rapine, stupri e abusi non avvengono in misura più grande di qualsiasi altra zona di occupazione. Le storie assurde sulle atrocità emergono dalla esagerazione e dalla distorsione dei singoli casi provocate dal nervosismo causato dalle rozze maniere dei soldati russi e dal loro amore per la vodka. Una donna che mi aveva riferito la maggior parte dei racconti di brutalità russa, racconti da far rizzare i capelli in testa, alla fine fu costretta ad ammettere che l’unica prova che aveva visto con i suoi occhi era quella di ufficiali russi ubriachi che sparavano con i loro fucili in aria e alle bottiglie … “
Dai diari del corrispondente di guerra australiano Osmar White
“… Dopo essermi trasferito a Oberhunden. Ragazzi di colore in azione qui a far Dio sa cosa. Hanno dato fuoco alla casa. Hanno accoltellato tutti i tedeschi con i rasoi e violentato le donne … “
Dal diario del segnalatore dell’esercito USA Edward Wise
“… Nello stesso giorno ho avuto un colloquio con una bella ragazza ungherese. Quando mi ha chiesto se mi fosse piaciuta Budapest, ho risposto di sì, ma che ho trovato i bordelli imbarazzanti. “Ma perché?” mi ha chiesto la ragazza. “Perché non è naturale; è animalesco “, ho spiegato. “Una donna che prende i soldi e subito dopo ci segue per  ‘fare l’amore’!”. Ci pensò su un momento, poi annuì e disse: “Hai ragione: prendere i soldi prima non è bello …”
Dalle memorie del militare della cavalleria, Alexander
 “… Andammo in una città tedesca, e fummo alloggiati nelle case. Apparve una “Frau”. Era di circa 45 anni e chiese di “Herr Kommandant.” Dichiarò di essere responsabile del distretto della città e di aver raccolto 20 donne tedesche per i bisogni sessuali (!!!) dei soldati russi… La reazione degli ufficiali fu rabbiosa e offensiva. Buttarono fuori la donna tedesca insieme al suo “distaccamento” pronto all’azione…
Dalle memorie dell’artigliere addetto ai mortai Nahum Orlov
“… Un po’ più avanti, ad un passaggio a livello poco prima del paese, ci imbattemmo in un “posto per la raccolta di armi e orologi”. pensai di star sognando: i civili, ben pasciuti inglesi prendevano gli orologi dai soldati tedeschi coperti di sporcizia! Da lì fummo mandati al cortile della scuola nel centro del paese. Lì erano stati riuniti un sacco di soldati tedeschi. Vegliavano su di noi, gli inglesi masticando chewing gum tra i denti – che era qualcosa di nuovo per noi – e si vantavano tra di loro deii loro trofei, sollevando alte le braccia, costellate di orologio da polso…”
Dalle memorie del caporale Egon Kopiske
 “… Tutto questo è stato acquisito con mezzi del tutto onesti, e non immaginare che in Germania, la rapina e il furto con scasso non vengano ignorati. Completo ordine. Ogni volta che sono comparse cose abbandonate dai “grandi nasi” di Berlino sono state confiscate e sono state distribuite in modo cameratesco a chi interessavano… “