La Repubblica popolare polacca prima dell’esplosione di Solidarnosc. Note di vita quotidiana in omaggio alla verità storica

La Repubblica popolare polacca prima dell’esplosione di Solidarnosc. Note di vita quotidiana in omaggio alla verità storica
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Di Luca Baldelli

Se ne dicono tante sul socialismo reale, ad un punto tale che, ormai, si è persino smarrito il lume orientativo che, solo, può distinguere, illuminandole, la menzogna dalla verità. Quarant’anni di lavaggio del cervello sapientemente orchestrato hanno inculcato nel cervello di molti l’idea di sistemi economicamente inefficienti, burocratici, restii ad ogni innovazione.
Le giovani generazioni, che mai hanno conosciuto quelle esperienze, ripetono il mantra delle bugie con inerziale ritualità, come robot caricati a pile per la bisogna. La Repubblica popolare polacca, nella testa di tanti, è rimasta impressa come esempio negativo per eccellenza; in questo caso, alla propaganda capitalista, imperialista e revisionista si è sommata più che mai, sistematicamente, la crociata dei novelli Goffredo di Buglione del Vaticano, per i quali la Repubblica popolare polacca rappresentava una faglia critica da sollecitare e stimolare, al fine di provocarne il collasso ed il rovesciamento del sistema sociale ed economico.
Ed ecco gli scioperi, alimentati ed incoraggiati da chi, in Occidente, usava i toni più violenti e reazionari nei confronti degli operai che scioperavano contro i capitalisti, i parassiti, le sanguisughe. Gli stessi che in Italia ed altrove parlavano di “sacre compatibilità” dell’ordinamento economico, tali da non sopportare la minima lotta rivendicativa, quelli che nel nostro Paese smantellavano la scala mobile dando ad essa la colpa dell’inflazione (come se il termometro fosse causa della febbre), quando parlavano di Polonia si dichiaravano fieri sostenitori di Solidarnosc, di ogni tipo di sciopero rivendicativo, indetto con le più strumentali motivazioni, di ogni iniziativa volta a bloccare e sabotare la produzione.
I giornali di Agnelli, che in Italia erano la controparte mediatica del Sindacato e della classe operaia, che affibbiavano al termine “sciopero” la stessa valenza semantica della parola “Belzebù”, parlando di Polonia scoprivano ogni volta, sorprendentemente, una passione per gli incitamenti alle interruzioni del lavoro, della produzione, del normale flusso delle attività della.vita associata. Purtroppo, la stampa revisionista non solo non contrapponeva nulla a tale malafede, disonestà e mistificazione sistematica, ma si accodava alle accuse più infamanti, ai peana più assurdi nei riguardi del Kor, di Solidarnosc e dei suoi scherani finanziati da Cia, Vaticano, Massoneria, centrali trotzkiste.
Non è un mistero per nessuno che le banche di Calvi e Gelli servivano da punti di passaggio e da centri propulsori per i denari diretti verso la Polonia a fini di destabilizzazione. E, così, ci si propinava l’immagine di un Paese distrutto dal “comunismo”, piegato dalla crisi economica, dalla fame. Difficoltà, certo, nel 1979/82 ve ne furono, ma a causarle fu proprio l’attività di Solidarnosc e delle centrali eversive antisocialiste ed antisovietiche. Le quali, impunemente (e qui si dovrebbe accusare il sistema di mollezza, non certo di eccessiva forza o di carattere repressivo) scatenarono il caos in un Paese sì con qualche problema, certo, specie in ordine ad un eccessivo indebitamento, favorito peraltro dall’Occidente sovrabbondante di petroldollari in cerca di collocazione sull’arena economica internazionale, ma complessivamente sano, prospero, contraddistinto da elevati livelli di benessere.
Alcuni dati, tratti dagli “Annali” economici degli anni ’70, disponibili in rete ed anche nel sito russo “Istmat”, raccolta assai interessante di documenti, atti ed opere dell’URSS e del socialismo reale, si incaricano di dimostrare la verità di questo assunto. Piuttosto che i dati di carattere macroeconomico, andremo ad individuare i dati dell’economia “quotidiana” dei cittadini, indicatori efficaci ed incontrovertibili del tenore di vita. Nel 1977, anno che rappresenta il miglior indicatore di quanto andiamo dimostrando, il salario medio netto del lavoratore polacco ammontava a 4408 zloty. Tale media era il risultato di calcoli che contemplavano il salario medio mensile del settore statale (4542 zloty), quello del settore cooperativo (3813 zloty), quello dell’industria globalmente intesa (4677 zloty), delle costruzioni (5053 zloty), dell’agricoltura (4506 zloty), del settore scientifico (5285 zloty), del settore sociale e dell’assistenza (3384 zloty) ecc…
In quell’anno, un kg di pane costava 5,40 zloty, un chilo di carne da 30 a 100 zloty (le più care le pregiatissime salsicce di tipo II), un chilo di prosciutto 36 zloty, un chilo di aringhe salate 26 zloty, un chilo di margarina 26 zloty, un chilo di burro di prima scelta 70 zloty, lo zucchero 10,50 zloty, le sigarette senza filtro “SPORT” (pacchetto da 20 pezzi) 6 zloty, 140 cm di tessuto di ottima lana 294 zloty, 140 cm di tessuto sintetico 106 zloty, 90 cm di pregiato tessuto di cotone, in varietà di 4/5 colori, 62 zloty. 1 kWh costava 0,90 zloty, la benzina 9 zloty al litro, il canone TV 40 zloty al mese, il canone radio 15 zloty al mese. Un affitto mensile 3 zloty al metro quadrato (180/200 zloty al mese), il biglietto del treno classe II per 200 km 60 zloty, 108 l’accelerato. Tram: 1 zloty; taglio di capelli in una barbieria di prima classe, 15 zloty. Una radio 1400 zloty, un televisore (indistruttibili questi elettrodomestici!) 6500 zloty.
Il tutto, in un contesto di piena occupazione e di salari crescenti a prezzi pressoché invariati. Un Paese in crisi? Alla luce di tutti questi dati, possiamo affermare che, ancora una volta, le menzogne capitaliste e clericali hanno diffuso i loro veleni, distorcendo la verità storica e persino quella della cronaca. Alla vigilia dell’esplosione di Solidarnosc, la Polonia socialista era un Paese con alcune contraddizioni, diseguaglianze e magari carenze: gli organi del Poup, non solo non lo negavano, peraltro, ma era semmai raro trovare un articolo di giornale, un servizio radiofonico, una relazione nei consessi di Partito, che fosse apologetica e non intrisa di critica. Ciò detto, se in quel contesto si postulava e si postula la necessità di scioperi, nel mondo capitalista di oggi con inflazione nascosta e dilagante, mancanza di ogni prospettiva, precariato come regola, deindustrializzazione spinta, quali lotte occorre allora sostenere?

Il saccheggio del patrimonio industriale dell’URSS (I)

Il saccheggio del patrimonio industriale dell’URSS (I)

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Presentiamo una serie di articoli comparsi sulla stampa russa sul saccheggio banditesco del patrimonio industriale dell’URSS, perpetrato sotto Eltsin e Gorbachev.  Si tratta di traduzioni dal russo ad opera del compagno Davide Spagnoli finora mai comparse in occidente. Ecco la prima pubblicazione di 5:

25 anni di privatizzazione in Russia: cosa resta degli impianti e delle fabbriche del paese?

Articolo tratto dal settimanale: «Аргументы и Факты [Argomenti e Fatti]» № 23 del 07/06/2017

FONTE

Traduzione di Davide Spagnoli

L’Unione Sovietica potrebbe essere definita un paese di fabbriche. Le imprese industriali erano in ogni città. Erano una fonte di vita: hanno dato lavoro, alloggi, permettevano di partorire e allevare figli.
L’URSS era uno dei leader (primo per molti tipi di prodotti) nella produzione industriale nel mondo e produceva autonomamente le attrezzature e le macchine necessarie. Che cosa abbiamo perso e che cosa abbiamo conservato nei 25 anni trascorsi dall’inizio della privatizzazione?

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La fabbrica di Voronez oggi

Cronaca sanguinosa

Il passaggio delle ex proprietà socialiste nelle tasche dei privati non è stata priva di omicidi, il cui apice si è raggiunto all’inizio degli anni ’90.
Quello più sanguinoso è stato lo scontro attorno alla compagnia petrolifera, l’inesauribile rubinetto di oro nero, a cui ci si è attaccati a qualsiasi costo. La sola «Samara Oil» è stata associata a 50 omicidi su commissione. La metallurgia si è rivelata essere la seconda industria per la lunghezza della scia di sangue. Molti omicidi sono rimasti irrisolti.

Ne citiamo solo alcuni: D. Zenshin, direttore di Kuibyshevnefteorgsintez, pugnalato a morte nel 1993; Y. Shebanov, vice direttore di NefSam, colpito a morte nel 1994; F. Lvov, direttore generale di AIOC (alluminio), ucciso nel 1995. V. Tokar, direttore dello stabilimento di metalli non ferrosi (Kamensk-Uralsky), ucciso nel 1996; A. Sosnin, proprietario di diverse fabbriche negli Urali, ucciso nel 1996. O. Belonenko, direttore generale di Uralmash, è stato ucciso nel 2000, e V. Golovlev, deputato della Duma di Stato, secondo una delle versioni, è caduto vittima di un killer nel 2002 per la sua partecipazione alla privatizzazione illegale dell’acciaieria Magnitogorsk.

Nel 2011 l’assassino di V. Pilshchikov è stato condannato a 24,5 anni in un carcere di massima sicurezza. Nel maggio 1995 aveva ucciso l’uomo d’affari di Sverdlovsk A. Yakushev, che era coinvolto nelle privatizzazioni nel 1994-1995 dello stabilimento di lavorazione della carne di Ekaterinburg (EMK). Un anno dopo gli venne ordinato di uccidere A. Sosnin, proprietario di diverse fabbriche degli Urali.

A San Pietroburgo negli anni ’90 solo durante la privatizzazione della JSC «Acciaieria», quattro candidati per questa proprietà sono stati uccisi uno dopo l’altro. Nel 1996 è stato ucciso nel suo ufficio P. Sharlaev, un vero leader della fabbrica di maglieria «Bandiera Rossa», che era Direttore Generale Aggiunto. Riuscì quasi a creare un gruppo finanziario e industriale che avrebbe unito le aziende agricole collettive produttrici di cotone dell’Uzbekistan, le fabbriche di San Pietroburgo e le risorse bancarie. Questo è stato il primo, ma non l’ultimo omicidio di dirigenti di fabbrica.

Negli anni ’90, ai ladri è stato permesso privatizzare i più appetibili pezzi di proprietà dello Stato. I «legislatori» hanno cercato di acquistare pacchetti di azioni e partecipare così alla privatizzazione di varie centrali elettriche, di cartiere come «Voronezhenergo», «Samaraenergo» e «Kurganenergo». Tra gli oggetti che interessavano i mafiosi c’erano «Lenenergo» e il «Porto di San Pietroburgo».

La fabbrica di Voronezh come era
La fabbrica di Voronez com’era

«Malversazione legale»

In URSS la maggior parte delle risorse – materiali e umane – era diretta allo sviluppo dell’industria pesante nazionale. In termini di livello di sviluppo industriale il paese era al secondo posto nel mondo.

«Nel 1990, la RSFSR aveva 30.600 imprese industriali di grandi e medie dimensioni», afferma Vasily Simchera, dottore in economia e professore. «Di queste 4.500 erano grandi ed enormi, con un numero fino a 5.000 occupati ciascuna, che rappresentano oltre il 55% di tutti i lavoratori dell’industria e più della metà della produzione industriale totale. Attualmente, in Russia ci sono solo poche centinaia di imprese del genere».

La creazione di un’industria così potente era un fenomeno naturale. Essendo una superpotenza, l’URSS realizzò progetti su larga scala, e per questi erano necessari prodotti industriali, specialmente prodotti dell’industria pesante.

In URSS il salario dei lavoratori non era una miseria

La RSFSR forniva a se stessa e ad altre repubbliche alleate i principali tipi di prodotti industriali. Nel 1991, l’anno della distruzione dell’Unione Sovietica, la RSFSR ha prodotto 4,5 volte camion in più, 10,2 volte mietitrebbie in più, 11,2 volte macchine per la forgiatura in più, 19,2 volte macchine per il taglio dei metalli in più, 33,3 volte trattori ed escavatori in più, 58,8 volte motocicli in più, 30 volte dispositivi di alta precisione e aerei in più.

La classe operaia industriale aveva superato i 40 milioni di unità, la metà delle quali erano specialisti qualificati. Lavoratori altamente qualificati, tornitori, montatori e manutentori ricevevano stipendi consistenti, che consistevano in salario e bonus per la qualifica (sistema delle categorie). Allo stesso tempo, gli stipendi dei direttori degli impianti non potevano essere superiori a quelli dei lavoratori più retribuiti di queste imprese. All’inizio degli anni ’80 gli stipendi dei migliori specialisti erano di 500-1.000 rubli. Se aggiungete ai vari bonus, la possibilità di un trattamento termale, la priorità nell’assegnazione degli appartamenti e altri ancora, si può affermare che la vita dei lavoratori altamente qualificati in URSS era molto confortevole, e gli stipendi erano paragonabili agli importi dei salari della nomenclatura scientifica: professori universitari e direttori di istituti scientifici. Il pacchetto sociale in URSS convertito in denaro rappresentava circa un terzo in più del valore nominale dello stipendio, tuttavia i volumi e soprattutto la qualità dei servizi differivano a seconda delle categorie di lavoratori. I dipendenti ordinari delle grandi imprese con una struttura sociale sviluppata ricevevano un bonus fino al 50% in più.

Aziende regalate

Oggi nella Federazione russa ci sono appena 5.000 imprese industriali di grandi e medie dimensioni, comprese quelle ex sovietiche. Nel primo anno di privatizzazione, 42.000 imprese (grandi, medie e piccole) sono state trasferite a nuovi proprietari. E solo 12.000 nuove entità economiche sono state create sulla loro base, la maggior parte delle quali hanno poi cessato l’attività.

Pertanto, ho motivo di credere – afferma Vasily Simchera – che la cifra che gira su Internet di 30.000 grandi e medie imprese, senza contare molte piccole, che sono state distrutte da fautori delle privatizzazioni e riformatori e le loro proprietà saccheggiate, sia corretta. Il censimento industriale, su cui ho insistito (e che potrebbe dare un quadro più affidabile) quando ero direttore dell’Istituto di statistica di ricerca di Rosstat, è stato costantemente bloccato da chi era interessato alla privatizzazione dolosa (speculativa) fino ad oggi.

Le fabbriche furono vendute all’asta per una miseria: per esempio, lo stabilimento di Likhachev, che produceva la famosa ZIL, venne venduto per $ 130 milioni, il tesoro ne ricevette 13, mentre un analogo gigante brasiliano fu venduto a un imprenditore privato dal governo brasiliano per $ 13 miliardi. Sibneft, che venne privatizzata per $ 100 milioni, ora vale 26 miliardi di dollari.

Le entrate del tesoro con in buoni di privatizzazione (voucher) ammontavano a 2.000 miliardi di rubli, ovvero 60 miliardi di dollari, che sono la metà dell’importo ricevuto dal bilancio dello Stato dalla privatizzazione nella piccola Ungheria, dove vivono 10 milioni di persone. Secondo le stime, il valore delle proprietà privatizzate è stato sottovalutato di 10 volte e ammontava a 20.000 miliardi di rubli, ovvero 600 miliardi di dollari.
A seguito della privatizzazione, lo sviluppo economico della Russia è ritornato al livello del 1975. Inoltre, il paese ha perso $ 1.500 miliardi.

Pertanto, una revisione dei risultati delle transazioni fraudolente è inevitabile. È necessario che gli attuali effettivi proprietari delle fabbriche privatizzate compensino il danno causato al paese e paghino tutte le tasse dovute al valore reale di mercato della proprietà ricevuta. Oppure che restituiscano il maltolto.

Nome della società

Prezzo di acquisto in milioni di $

Valore di mercato in milioni di $

1. «Norilsk Nichel»

170

15 800

2. « Surgutneftegas »

88,9

11 200

3. Compagnia petrolifera
«
Yukos»

159

29 110

4. Fabbrica meccanica di Kovrov

2,7

828

5. Stabilimento metallurgico di Samara

2,2

78

6. « Uralmash »

3,7

50

7. Stabilimento metallurgico di Chelyabinsk

13,3

1600

8. Fabbrica di trattori di Chelyabinsk

2,2

43

9. Stabilimento siderurgico di Novolipetsky

31

1400

10. Compagnia petrolifera
«Sidanko»

130

16 900

Riforme, «inganno e rapine»

Le riforme dei primi anni ’90 sono spesso indicate come una terapia d’urto, il che significa che si trattava di un trattamento duro ma necessario per l’economia. Si è trattato piuttosto di un intervento chirurgico, in cui si è amputato a morte e senza anestesia. E le conseguenze sono ancora materia di discussione.

Le riforme – continua Vasily Simchera – vengono giudicate in base ai loro risultati. Dalle azioni dell’entourage di Eltsin è chiaro che non si trattava di riforme, ma di pseudo-riforme con chiari segni di furto. Anche questi «riformatori» hanno contribuito al crollo dell’Unione Sovietica, anche se ora stanno cercando di ripudiare quanto da loro fatto. Non riusciranno a farla franca: sono state queste persone che, attraverso la rivista comunista in cui lavorava Yegor Gaidar, hanno lanciato il mito che l’economia sovietica era irriformabile.

Орловское производственное часовое объединение "Янтарь"
La fabbrica Yantar nel 1983

Da dove proveniva il deficit?

Qual era il vero stato dell’economia sovietica? Negli anni ’70, nel comitato statale per la scienza e la tecnologia dell’URSS, per il Comitato di pianificazione statale, venne creato un sistema nazionale automatizzato per la gestione dell’economia nazionale, una sorta di «Internet dipartimentale». Questo sistema mostrò che nell’economia nazionale non c’erano carenze irrecuperabili, deviazioni dai piani statali, eccetto per quei piccoli insuccessi che iniziarono nell’economia con l’arrivo di Gorbaciov. Ma questi fallimenti erano incomparabili anche con gli attuali migliori anni di sviluppo, per non parlare dei problemi in cui la banda Yeltsin-Gaidar aveva gettato il paese.

Nel paese non c’era sovrapproduzione o deficit, perché l’offerta era in equilibrio con la domanda. La domanda c’era perché la gente aveva soldi: lo stipendio veniva pagato senza i ritardi di oggi. Era più giusto, perché avevamo 2-3 milioni di persone che facevano prodotti non richiesti, e oggi ce ne sono a decine di milioni!

Il deficit è stato creato artificialmente in seguito, proprio per distruggere il paese. Salsicce, zucchero e altri prodotti venivano accumulati nei magazzini e non potevano essere venduti al dettaglio… per ordini dall’alto! E non si trattava della mafia commerciale, che, naturalmente, ha approfittato del momento per rivendere attraverso i propri canali a un prezzo più alto di quello statale. È stato l’ordine americano per la distruzione della nostra economia, che è stato elaborato dal «team di riformatori». È stata una guerra economica volta alla distruzione del paese.

Infografica 1

Ci vuole un cervello eccezionale per fare questo?

Non c’era nessuna riforma. Gaidar lasciava correre i prezzi, Non ci vuole una intelligenza superiore per questo. I veri statisti si sono rifiutati di fare così perché pensavano al benessere del popolo e non volevano condannare la gente alla povertà. E Gaidar ha deciso e ha distrutto tutto, sia i risparmi dei cittadini sovietici che l’economia. Qualsiasi avventuriero può farlo! I prezzi sono aumentati di centinaia di volte. Quali sono i benefici per il paese? Cosa ha fatto la «mano invisibile del mercato»? Dove sono i risparmi dei cittadini forzatamente sequestrati che le autorità stanno cercando di recuperare, ma finora non ci sono riuscite?

I cosiddetti riformatori non hanno risolto i problemi dell’economia, ma hanno solo combattuto contro il comunismo. Allo stesso tempo, non c’era bisogno di combatterlo, perché i comunisti stessi non erano pronti a combattere: la maggior parte dei loro dirigenti erano avidi o deboli.

E il problema principale non è scomparso nell’economia attuale! È la stessa del periodo sovietico… La malattia si chiama «scroccare (appropriarsi indebitamente)» e ha inizio con il blocco delle riforme di Kosygin (Alexei Kosygin – Presidente del Consiglio dei Ministri dell’URSS dalla metà degli anni Sessanta – Ed.), il cui scopo era quello di far transitare le imprese, le fattorie collettive e le istituzioni verso l’autosostentamento e l’autofinanziamento. Purtroppo, la base dell’economia è stata distrutta dai «riformatori», e per rendere l’economia russa potente ed efficiente, sono necessari molti più sforzi che negli anni 60, 80 e persino 90.

Qual era la cosa giusta da fare? Che tipo di riforme erano veramente necessarie?

C’era bisogno di una vera privatizzazione, che coinvolgesse tutti i lavoratori e i dipendenti del paese (compresi gli ex lavoratori). Sulla base di metodologie e standard internazionali, sarebbe stato necessario condurre una verifica per ottenere una valutazione del valore reale di tutte le fabbriche e degli impianti da privatizzare, fino a includere ogni punto vendita. Sarebbe occorso quindi determinare il valore totale delle attività da privatizzare, il numero di azioni con diritto di voto e il prezzo di ciascuna di esse.

Queste azioni di proprietà dovevano essere emesse a favore dei dipendenti esistenti e degli ex dipendenti e dovevano essere disponibili per la rivendita entro un determinato periodo di tempo. In tal modo, le società per azioni sarebbero costituite come entità autosufficienti e capaci di autosostenersi. E solo alla fine di questa fase di riforme si sarebbero potuti introdurre gradualmente i prezzi di mercato.

I metodi e i risultati delle ‹«riforme» di Eltsin-Gaidar-Chubais sono ancora criticati da tutti, l’economia russa è stagnante e non ha prospettive. Pertanto, qualunque cosa si possa dire, la restituzione delle proprietà pubbliche brutalmente privatizzate e forzatamente sequestrate è inevitabile. Nessuno può costruire la Russia sull’immiserimento delle persone!

Infografica 2

Al posto delle officine e delle macchine ora ci sono rovine.

Una volta queste fabbriche era piene di vita e il lavoro in pieno svolgimento. Le navi, gli orologi, le gru, ecc. prodotti venivano trasportati pere tutta l’URSS e in tutto il mondo.

Come si sono spartiti la «Yantar»

La fabbrica di orologi di Orlovsky era leader nella produzione di orologi da interno di grandi dimensioni e allarmi. Nel 1976 l’impianto è stato chiamato «Yantar».

Fino a 9.000 persone hanno lavorato nell’Associazione di produzione «Yantar», e i prodotti venivano esportati in 86 paesi del mondo. Ma negli anni ’90 il capo dello stabilimento fu costretto a dimettersi. L’azienda iniziò ad avere problemi con gli stipendi e i dipendenti risposero con manifestazioni di protesta.

– Il nuovo direttore ha distrutto lo stabilimento nel giro di sei mesi. Negli anni ’90 gli uomini d’affari hanno iniziato a pensare prima a se stessi e poi alla loro patria. Per questo motivo non abbiamo quasi nessuna industria ammiraglia rimasta nella regione, che produceva non solo per l’URSS, ma anche per i paesi stranieri, – dice l’ex sindaco di Orla, Efim Velkovsky.

Nel 2004 l’impianto è stato acquistato dalla «АЛМАЗ-ХОЛДИНГ (Diamanti Holding Ltd.)», che ha distribuito la proprietà tra altre società. Per salvare la produzione venne creata la «Янтарь (Yantar) Ltd.». Del precedente collettivo di lavoro 80 dipendenti se ne sono andati, il resto di loro venne licenziato. Invece di sviluppare l’impianto, la nuova società la mise in fallimento. Gli impianti sono stati venduti a prezzi stracciati. La «Янтарь (Yantar) Ltd.» ha cessato di esistere.

Più o meno la stessa sorte è toccata alla Orlex CJSC – l’ex impianto di Orlovsky di aria condizionata e dispositivi di analisi del gas. I dispositivi della Orlex si trovavano nelle miniere, nei frigoriferi delle navi e delle ferrovie, su sottomarini e razzi. Alla fine degli anni ’90 la Orlex è stata trasformata. E hanno iniziato a «ucciderla». Nel 2011 lo stabilimento è stato dichiarato fallito. Gli edifici con una superficie totale di 10 mila metri quadri sono stati venduti al prezzo di 10 mila rubli per metro quadrato! I lavoratori si recavano alle manifestazioni per chiedere il pagamento dello stipendio. Allo stesso tempo, erano stati ricevuti ordini per alcuni prodotti della Orlex dei quali non ne esistevano analoghi in Russia. Nonostante questo, nel 2015, la società ha cessato l’attività.

Chi ha ucciso la «Katyusha»

Nelle officine dell’impianto Comintern di Voronezh venivano prodotti i primi sistemi di artiglieria «Katyusha».

Dopo la Seconda guerra mondiale l’azienda produceva escavatori, gru, caricatori, macchine agricole. E negli anni ’90, insieme all’industria meccanica di Voronezh andò in crisi. A fronte di un volume di commesse durante il periodo sovietico di 1.190 escavatori all’anno, negli anni 2000 la produzione raggiungeva appena le 40 macchine. Tuttavia, l’azienda avrebbe potuto rimanere a galla se non fosse stato per l’ubicazione: 24 ettari di terreno quasi al centro della città. Un bocconcino…

I lavoratori, da mesi senza stipendio hanno attuato uno sciopero della fame, ma le proteste non hanno impedito di vendere l’impianto pezzo per pezzo per una miseria. La fabbrica è stata rottamata per diverse centinaia di milioni di rubli.

L’impianto è stato definitivamente chiuso nel 2009. Le officine sono state barbaramente smantellate: tutto, dai ponti gru ai cavi è stato asportato. Ancora oggi, sul territorio dell’azienda si può vedere un triste paesaggio: finestre rotte, tetti delle ex officine sfondati, e con cumuli di rifiuti ovunque.

Secondo gli esperti nel campo immobiliare industriale, la possibilità di far rivivere l’impianto è perduta per sempre. Inoltre, su una parte del suo territorio sono già stati costruiti dei grattacieli. E i cittadini di Voronezh devono acquistare attrezzature importate.

E a Nizhny Novgorod nel 2015, alla vigilia del suo centenario, la fabbrica di indumenti «Маяк (Faro)» di Nizhny Novgorod ha chiuso. Sia in epoca sovietica che all’inizio degli anni 2000, era tra le prime dieci aziende di abbigliamento del paese. Da qui mandavano i vestiti a Mosca, quelli per gli Urali, provenivano da contratti stipulati con l’estero.

Dalla fine degli anni ’90, la fabbrica ha iniziato a morire. La proprietà ha venduto le sue attrezzature uniche e affittato lo spazio. Così la fabbrica di indumenti «Маяк (Faro)» di Nizhny Novgorod è diventata un’altra riga nella storia del crollo dell’industria sovietica.

L’ “Holodomor” e il film “Bitter Harvest” sono bugie fasciste

L’ “Holodomor” e il film “Bitter Harvest” sono bugie fasciste

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Di Grover Furr

Traduzione di Guido Fontana Ros

FONTE

(nota dell’Autore: in questo articolo ricorro largamente alle prove citate nelle ricerche di Mark Tauger dell’University of West Virginia. Tauger ha trascorso la sua vita professionale studiando l’agricoltura e le carestie russe e sovietiche. E’ un’autorità mondiale riguardo a questi soggetti e è cordialmente odiato dai nazionalisti ucraini e in genere dagli anticomunisti in quanto le sue ricerche mandano in briciole le loro falsificazioni.)

La pellicola nazionalista ucraina “Bitter Harvest” diffonde le bugie inventate dai nazionalisti ucraini. In questa recensione Louis Proyect diffonde anche lui queste menzogne.

Proyect cita un articolo del 1988 comparso su Village Voice a firma di Jeff Coplon: In Search of a Soviet Holocaust: A 55-Year-Old Famine Feeds the Right.

In questo articolo Coplon evidenziava che i maggiori esperti di storia sovietica appartenenti alla corrente dominante respingevano ogni nozione che una deliberata carestia possa essere stata perpetrata contro gli ucraini. Lo fanno tuttora. Proyect dimentica di menzionare questo fatto.

Ci fu una grave carestia in URSS che includeva (ma non solo) la repubblica socialista dell’Ucraina negli anni 1932-33, ma non c’è mai stata alcuna prova di un “Holodomor” o di una carestia “pianificata” e non ce n’è alcuna neanche adesso.

L’invenzione dell’ “Holodomor” fu escogitata dai collaborazionisti ucraini che trovarono rifugio nell’Europa Occidentale, in Canada e in USA dopo la guerra. Un primo racconto è quello di Yurij Chumatskij: Why Is One Holocaust Worth More Than Others? che fu pubblicato in Australia nel 1986 da “veterani dell’esercito insurrezionale ucraino”; quest’opera è un attacco vero e proprio ai “giudei” per essere troppo favorevoli al comunismo.

La recensione di Proyect contribuisce a perpetuare le seguenti falsità sulla collettivizzazione sovietica dell’agricoltura sulla carestia degli anni 1932-33:

  • Che i contadini resisterono alla collettivizzazione  principalmente perché era una “seconda servitù della gleba”.
  • Che la carestia fu causata dalla collettivizzazione forzata. In realtà la carestia ebbe cause ambientali.
  • Che “Stalin” vale a dire la dirigenza sovietica crearono intenzionalmente la carestia.
  • Che fu concepita per distruggere il nazionalismo ucraino.
  • Che “Stalin” (il governo sovietico) “arrestò la politica di ucrainizzazione cioè la promozione di una politica per incoraggiare l’uso della lingua ucraina e la diffusione della cultura ucraina.

Nessuna di queste affermazioni è vera. Nessuna è supportata da prove storiche. Sono semplicemente asserzioni di fonti nazionalistiche ucraine create col proposito di fornire una giustificazione ideologica alla loro alleanza con i nazisti e alla loro partecipazione all’Olocausto ebraico, al genocidio degli ucraini polacchi (i massacri in Volinia degli anni 1943-44) e dell’assassinio di ebrei, comunisti e di molti contadini ucraini dopo la guerra.

Il loro fine ultimo è quello di equiparare il comunismo con il nazismo (il comunismo è attualmente fuorilegge nell’Ucraina “democratica”), l’URSS con la Germania nazista e Stalin con Hitler.

La collettivizzazione dell’agricoltura – La realtà

La Russia e l’Ucraina hanno sofferto gravi carestie ogni pochi anni per oltre un millennio. Una carestia accompagnò la Rivoluzione del 1917, diventando più seria nel 1918-1920. Un’altra grave carestia, chiamata “la carestia del Volga”, colpì dal 1920 al 2121. Ci furono carestie nel 1924 e di nuovo nel 1928-29, quest’ultima particolarmente grave nella repubblica socialista ucraina. Tutte queste carestie avevano cause ambientali. Il metodo medievale di coltivazione dell’agricoltura contadina rendeva impossibile un’agricoltura efficiente e le carestie inevitabili.

I leader sovietici, tra cui Stalin, decisero che l’unica soluzione era riorganizzare l’agricoltura sulla base delle grandi fattorie di tipo industriale come quelle del Midwest americano, che furono prese intenzionalmente a modello. Quando i sovzhozy o “fattorie sovietiche” sembrarono funzionare bene, la leadership sovietica prese la decisione di collettivizzare l’agricoltura.

Contrariamente alla propaganda anticomunista, la maggior parte dei contadini accettò la collettivizzazione. La resistenza fu modesta; gli atti di ribellione totale rari. Nel 1932 l’agricoltura sovietica, compresa quella della repubblica ucraina, fu in gran parte collettivizzata.

Nel 1932 l’agricoltura sovietica fu colpita da una combinazione di catastrofi ambientali: la siccità in alcune zone, troppa pioggia in altre, attacchi di ruggine e fuliggine (malattie fungine) e infestazioni di insetti e topi. Il diserbo venne trascurato, i contadini si indebolirono, riducendo ulteriormente la produzione.

La reazione del governo sovietico cambiò quando la dimensione del fallimento del raccolto divenne più chiara durante l’autunno e l’inverno del 1932. Credettero che la cattiva gestione e il sabotaggio fossero le cause principali del magro raccolto, il governo rimosse molti dirigernti del Partito e delle fattorie collettive (a questo riguardo non è provato che qualcuno sia stato “giustiziato” come capita a Mykola nel film). All’inizio del febbraio del 1933 il governo sovietico iniziò a fornire enormi aiuti di grano alle aree della carestia.

Il governo sovietico organizzò anche ispezioni nelle fattorie contadine per confiscare il grano in eccesso per nutrire le città, che non producevano il proprio cibo. Inoltre intervenne per frenare la speculazione; durante una carestia il grano viene venduto essere a prezzi gonfiati. Nelle condizioni di una carestia non si poteva permettere un mercato libero del grano a meno che i poveri non fossero lasciati morire di fame, come succedeva sotto gli zar.

Il governo sovietico organizzò dipartimenti politici (politotdely) per aiutare i contadini nel lavoro agricolo. Tauger conclude:

“Il fatto che il raccolto del 1933 fosse molto più grande di quello del 1931-1932 significa che la politica del paese aiutò le fattorie a lavorare meglio.” (Modernisation, 100)

Il buon raccolto del 1933 fu consegnato a una popolazione considerevolmente più piccola, poiché molti erano morti durante la carestia, altri erano malati o indeboliti, e altri ancora erano fuggiti in altre regioni o nelle città. Ciò riflette il fatto che la carestia non fu causata da collettivizzazione, interferenze governative o resistenza contadina, ma da cause ambientali non più presenti nel 1933.

La collettivizzazione dell’agricoltura fu una vera riforma, una svolta nella rivoluzione dell’agricoltura sovietica. C’erano ancora anni di scarsi raccolti – il clima dell’URSS non cambiò. Ma, grazie alla collettivizzazione, ci fu solo un’altra carestia devastante nell’URSS, quella del 1946-1947. Il più recente studio di questa carestia, Stephen Wheatcroft, conclude che questa carestia venne causata dalle condizioni ambientali e dalle interruzioni della coltivazione causate dalle distruzioni della guerra.

Le false affermazioni di Proyect

Proyect ripete acriticamente la versione fascista autoassolutoria  della storia ucraina senza alcuna base reale.

  • Non esisté mai una “macchina stalinista  per uccidere”.
  • I funzionari incaricati del Partito non sono stati “epurati e giustiziati”.
  • “Milioni di ucraini” non sono stati condotti a “forza nelle fattorie statali e in quelle collettive”. Tauger conclude che la maggior parte dei contadini accettò le fattorie collettive e lavorò bene in esse.
  • Proyect accetta l’afermazione nazionalista ucraina di “3-5 milioni di morti premature”. Questo è falso.

Alcuni nazionalisti ucraini citano cifre di 7-10 milioni, al fine di eguagliare o superare i sei milioni dell’olocausto ebraico (cfr. Il titolo di Chumatskij “Why Is One Holocaust Worth More Than Others?“). Il termine “Holodomor” stesso (“holod” = “hunger”, “mor” dal polacco “mord” = “omicidio”, ucraino “morduvati” = “omicidio) è stato deliberatamente coniato per sembrare simile a “Olocausto”.

L’ultimo studio scientifico sulle morti per carestia parla di 2,6 milioni di vittime (Jacques Vallin, France Meslé, Serguei Adamets e Serhii Pirozhkov, “Una nuova stima delle perdite della popolazione ucraina durante le crisi degli anni ’30 e ’40“, Population Studies 56, 3 (2002) : 249-64).

  • Jeff Coplon non è un “sindacalista canadese” ma un giornalista e scrittore newyorkese; il libro del defunto Douglas Tottle, Fraud, Famine and Fascism, una ragionevole risposta al fraudolento Harvest of Sorrow di Robert Conquest, fu scritto (così come il libro di Conquest) prima dell’inondazione dalle fonti primarie dagli archivi ex sovietici rilasciate alla fine dell’URSS nel 1991 e quindi è seriamente obsoleto.
  • L’affermazione di Walter Duranty circa “frittate” e “uova”  non fu fatta “in difesa di Stalin” come asserisce Proyect, ma come critica alla politica del governo sovietico:

Ma, per dirla alle spicce, non si può fare una frittata senza rompere le uova e i dirigenti bolscevichi sono proprio indifferenti alle perdite in cui eventualmente incappano  nel percorso verso la socializzazione proprio come un generale della Guerra Mondiale che ordinava un costoso attacco per mostrare ai suoi superiori che lui e la sua divisione possedevano il giusto spirito militare. In effetti i bolscevichi sono ancora più indifferenti poiché sono animati da una convinzione fanatica. (The New York Times March 31, 1933)

Evidentemente Proyect ha semplicemente copiato questa notizia infondata da qualche fonte nazionalista ucraina. Spazzatura in entrata, spazzatura in uscita.

  • Andrea Graziosi, che Proyect cita, non è uno studioso dell’agricoltura sovietica o della carestia del 1932-33, ma un anticomunista ideologico che asseconda qualsiasi falsità anti-sovietica. L’articolo che Proyect cita è dell’Harvard Ukrainian Studies, un giornale privo di ricerche obiettive, finanziato e curato da nazionalisti ucraini.
  • Proyect si riferisce a “due decreti segreti” del dicembre 1932 del Politburo sovietico che egli chiaramente non ha letto. Questi hanno fermato l'”ucrainizzazione” al di fuori della repubblica ucraina. All’interno della repubblica ucraina l’ “ucrainizzazione” ha continuato senza soste. Non è “finita” come sostiene Proyect.
  • Proyect non cita alcuna prova di una “politica sovietica volta alla distruzione fisica della nazione ucraina, in particolare della sua intellighenzia” perché non esisteva tale politica.

Un trionfo del socialismo

La collettivizzazione sovietica dell’agricoltura è una delle più grandi imprese della riforma sociale del XX secolo, se non la più grande di tutte, da mettere assieme alla “rivoluzione verde”, al “miracolo del riso” e alle imprese di controllo delle acque in Cina e negli Stati Uniti. Se i premi Nobel venissero assegnati anche per i risultati comunisti, la collettivizzazione sovietica sarebbe il miglior concorrente.

La verità storica sull’Unione Sovietica non è gradita non solo ai collaborazionisti nazisti, ma anche agli anticomunisti di ogni tipo. Molti che si considerano di sinistra, come i socialdemocratici e i trotskisti, ripetono le bugie dei fascisti dichiarati e degli scrittori apertamente pro-capitalisti (neretto del traduttore). Gli studiosi obiettivi della storia sovietica come Tauger, determinati a dire la verità anche quando questa verità è impopolare, sono fin troppo rari e spesso soffocati dal coro dei falsificatori anticomunisti.

Fonti

I libri frutto delle ricerche di Mark Tauger, in particolare “Modernization in Soviet Agriculture” (2006); “Stalin, Soviet Agriculture and Collectivization” (2006); e “Soviet Peasants and Collectivization, 1930-39: Resistance and Adaptation.” (2005), tutti disponibili su Internet. Altri articoli di Tauger sono disponibili in questa pagina:

https://www.newcoldwar.org/archive-of-writings-of-professor-mark-tauger-on-the-famine-scourges-of-the-early-years-of-the-soviet-union/

Vedasi anche il capitolo I del mio libro Blood Lies; The Evidence that Every Accusation against Joseph Stalin and the Soviet Union in Timothy Snyder’s Bloodlands Is False (New York: Red Star Press, 2013 a questa URL;

http://msuweb.montclair.edu/~furrg/research/furr_bloodliesch1.pdf

Sulla carestia del 1946-47 vedasi Stephen G. Wheatcroft, “The Soviet Famine of 1946–1947, the Weather and Human Agency in Historical Perspective.” Europe-Asia Studies, 64:6, 987-1005.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La verità sui gulag sovietici

La verità sui gulag sovietici

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Traduzione di Guido Fontana Ros

La verità sui gulag sovietici – Sorprendentemente rivelata dalla CIA

INTRODUZIONE
Le bugie “umanitarie” servono a lavare il cervello alla popolazione per sostenere le guerre imperialiste. Nutriti dalla propaganda d’estrema destra e sovvenzionati dalla CIA, gli organi principali di “notizie” descrivono i campi di lavoro sovietici, anche noti come “gulag”, come un mezzo adoperato da Stalin per reprimere i dissidenti pro democrazia e ridurre in schiavitù le masse sovietiche. del resto la stessa CIA che per mezzo dell’operazione Mockingbird, diede al complesso militare USA il controllo pressoché totale della stampa mainstream al fine di favorire la disinformazione antisovietica (Tracy, 2018), ha recentemente declassificato alcuni documenti che invalidano le menzogne circondanti i gulag.
La CIA che condusse operazioni antisovietiche per quasi cinque decadi e la cui direzione si sforzava di ottenere informazioni accurate sull’URSS, non poteva essere tacciata di favoritismo verso l’Unione Sovietica. Quindi i seguenti file declassificati dove vengono “confessate” sorprendentemente informazioni favorevoli all’Unione Sovietica, assumono un particolare rilievo.
Mentre concordiamo sulle dure condizioni che esistevano nei  gulag, come succede in ogni sistema carcerario nel mondo, lo scopo di questo articolo è quello di lumeggiare i seguenti fatti:
1) la durezza delle condizioni delle prigioni è stata esagerata dalla stampa occidentale, attraverso menzogne create a bella posta
2) le statistiche attinenti la popolazione dei gulag sono state esagerate
3) ci fu uno sforzo genuino per migliorare le condizioni dei prigionieri quando ci furono le possibilità e
4) i requisiti delle condizioni della prigionia erano molto più alti di quelli vigenti in molti paesi capitalisti.

LE CONDIZIONI DI DETENZIONE

Un documento della CIA risalente al 1957, intitolato “Forced Labor Camps in the USSR: Transfer of Prisoners between Camps” ci rivela queste informazioni circa i gulag sovietici da pagina due a pagina sei:
1) Fino al 1952 ai prigionieri veniva conferito un dato ammontare di cibo, aumentato nel caso che le quote di produzione fossero state superate
2) Dal 1952 in poi il sistema cominciò a funzionare sulla “responsabilizzazione economica”, vale a dire più i prigionieri lavoravano più venivano pagati
3) nel caso di completamento e superamento delle quote di produzione del 105% ogni giorno di pena veniva contato per due.
4) Inoltre grazie alla ricostruzione socialista postbellica il governo sovietico poté disporre di più fondi e così aumentò la fornitura di cibo ai detenuti.
5) Fino al 1954 i prigionieri lavoravano 10 ore al giorno, mentre gli operai ne lavoravano 8. Dal 1954 in poi i prigionieri lavorarono 8 ore come gli operai.
6) Uno studio della CIA su un campo preso come campione mostra come il 95% dei detenuti fosse composto da veri e propri criminali.
7) Nel 1953, fu concessa un’amnistia al 70% dei criminali comuni detenuti in quel campo e nei successivi 3 mesi la maggior parte di loro fu di nuovo arrestata avendo commesso nuovi reati.

Qui di seguito alcuni estratti da codesti documenti della CIA, sottolineati e riuniti insieme per facilitare il lettore:

Questi contraddicono in modo assoluto la narrazione  che i prigionieri dei gulag non fossero retribuiti. Indubbiamente il lavoro era forzato, ma erano forniti premi ed incentivi materiali. I prigionieri furono pagati dal 1952 in poi mentre precedentemente erano ricompensati con cibo.

Secondo le fantasie borghesi il “regime” sovietico di proposito affamava la popolazione dei gulag. Invece alla luce dei fatti ci furono sforzi dalla parte sovietica per incrementare la fornitura di cibo ai prigionieri dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Il fatto che la giornata lavorativa fosse solo di due ore superiore a quella degli operai fino al 1954 e che da quell’anno divenne pari a quella degli operai liberi è una chiara dimostrazione delle tendenze egalitaristiche dello stato sovietico.

Oltre tutto, fatto degno di nota è che fossero i criminali non i rivoluzionari pro democrazia ad essere spediti nei gulag. Come in tutti i sistemi giudiziari, certamente c’erano degli errori e qualche innocente poteva finire in prigione; il fatto cruciale è questo fatto venne esagerato dalla stampa imperialista.

Facciamo un paragone fra il sistema sovietico e quello USA. Il 13° emendamento permetto il lavoro schiavile dei detenuti; con molti detenuti vessati a causa della loro etnia. Anche la dinastia Clinton ebbe schiavi nello stato dell’Arkansas (News 2017).

Eccezionale concentrato di grandissime balle

I NUMERI

Secondo la quarta pagina di un altro documento della CIA (1989), intitolato “The Soviet Labour System: An Update,” il numero dei prigionieri dei gulag “crebbe fino a 2 milioni” al tempo di Stalin.

Questi dati sono comparabili a quelli provenienti dagli archivi sovietici desecretati. Il seguente documento è un documento archivistico sovietico declassificato del 1954 ((Pykhalov), di cui un estratto è stato tradotto in inglese:

NDT: A questo punto non possiamo più seguire l’articolo originale, dove è stato fatto un pasticcio ai limiti della comprensibilità con i dati tratti dal libro di Pykhalov, quindi ne facciamo un riassunto corretto e comprensibile.

“Nel periodo intercorrente fra il 1921 e l’inizio del 1953, per reati controrivoluzionari furono condannate  a morte 642.980 persone, 2.369.220 alla reclusione e 765.160 al confino.
Tuttavia vi sono altri dati, sempre dal libro citato, che dettagliano con cifre di poco differenti il numero delle persone condannate a morte in quell’arco temporale: 815.619 condannati a morte su 4.308.487 persone processate.
Bisogna considerare però che in questi dati è compresa una notevole quota di criminali comuni (almeno il 30%) e che spesso non tutte le sentenze capitali venivano eseguite. Per esempio, su 76 condanne a morte emesse dalla Corte distrettuale di Tyumen nella prima metà del 1929, al gennaio del 1930 solo 9 furono eseguite… e 46 furono trasformate in pene detentive o annullate.”

Gli archivi sovietici rimasero riservati per decenni, furono aperti solo dopo il collasso dell’Unione Sovietica. In aggiunta, dopo la morte di Stalin, il capo della NKVD (Ministero degli Interni russo) , Lavrenty Beria, sostenitore di Stalin, fu fatto uccidere prontamente da  Khrushcev, accanito antistalinista (History in an hour 2010).

Questi fatti rendono molto improbabile che i servizi di sicurezza sovietici fossero favorevoli a Stalin.

IL NOBEL DELLA MENZOGNA

Lo storico italoamericano Michael Parenti (1997, pp. 79-80), analizzò ulteriormente i dati provenienti dagli archivi sovietici:

“Nel 1993, per la prima volta, diversi storici hanno ottenuto l’accesso agli archivi precedentemente segretati della polizia sovietica  e sono stati in grado di stabilire stime ben documentate della popolazione delle prigioni e dei campi di lavoro e hanno scoperto che la popolazione totale dell’intero sitema dei gulag a partire dal gennaio 1939, verso la fine delle Grandi Purghe, era di 2.022.976, e in quel periodo iniziò pure una purga degli epuratori, tra cui molti funzionari dell’intelligence e della polizia segreta (NKVD) e membri della magistratura e altri comitati investigativi, che furono da quel momento ritenuti responsabili per gli eccessi del terrore nonostante le loro proteste di fedeltà al regime.”

“I campi di lavoro sovietici non erano campi di sterminio come quelli che i nazisti costruirono in Europa: non c’era uno sterminio sistematico dei detenuti, nessuna camera a gas o forni crematori per sbarazzarsi di milioni di corpi …” La grande maggioranza dei detenuti del gulag sopravvisse e alla fine ritornò alla società quando fu concessa l’amnistia o quando finirono di scontare la pena. Ogni anno, dal 20 al 40% dei detenuti erano rilasciati, secondo i registri degli archivi. Nonostante questi fatti, il corrispondente di Mosca del New York Times (7/31 / 96) continua a descrivere il gulag come “il più grande sistema di campi di sterminio nella storia moderna”.

“Quasi un milione di prigionieri di gulag furono rilasciati durante la seconda guerra mondiale per prestare servizio militare. Gli archivi rivelano che più della metà di tutti i decessi nei gulag per il periodo 1934-53 avvenne durante gli anni della guerra (1941-45), per lo più a causa dalla malnutrizione, quando la fame e gli stenti erano il destino comune dell’intera popolazione sovietica (circa 22 milioni di cittadini sovietici morirono durante la guerra). Nel 1944, ad esempio, il tasso di mortalità nei campi di lavoro era di 92 su 1000. Nel 1953, con la ripresa postbellica, le morti dei campi erano scese a 3 per 1000.”

“Tutti i detenuti dei gulag possono essere considerati vittime innocenti della repressione rossa? Contrariamente a quanto siamo stati portati a credere, quelli arrestati per crimini politici (“reati controrivoluzionari “) erano compresi tra il 12 e il 33% della popolazione carceraria, con variazioni annuali. La maggior parte dei detenuti era accusata di reati non politici: omicidio, aggressione, furto, banditismo, contrabbando, truffa e altre violazioni punite in qualsiasi società.”

Così, secondo la CIA, circa due milioni di persone furono inviate al Gulag negli anni ’30, mentre secondo gli archivi sovietici declassificati, 2.369.220 fino al 1954. Rispetto alla popolazione dell’URSS dell’epoca, facendo un raffronto con le statistiche di un paese come gli Stati Uniti, la popolazione del Gulag nell’URSS nel corso della sua storia era  in percentuale inferiore a quella carceraria degli Stati Uniti di oggi o degli anni ’90. Infatti, secondo la ricerca di Sousa (1998), negli Stati Uniti c’era una percentuale più grande di prigionieri (rispetto all’intera popolazione) di quanti ce ne fossero mai stati nell’URSS:

“In una notizia senza alcun risalto che appariva sui giornali dell’agosto 1997, l’agenzia di stampa FLT-AP riferiva che negli Stati Uniti non c’erano mai state così tante persone nel sistema carcerario come i 5,5 milioni detenuti nel 1996. Questo rappresenta un aumento di 200.000 persone dal 1995 e significa che il numero di criminali negli Stati Uniti è pari al 2,8% della popolazione adulta. Questi dati sono disponibili per tutti coloro che fanno parte del dipartimento di giustizia nordamericano …. Il numero di detenuti negli Stati Uniti oggi è di 3 milioni più alto del numero massimo di detenuti in Unione Sovietica! Nell’Unione Sovietica, ci fu un massimo del 2,4% della popolazione adulta in carcere: negli Stati Uniti la cifra è del 2,8% ed è in aumento! Secondo un comunicato stampa diffuso dal dipartimento della giustizia degli Stati Uniti il ​​18 gennaio 1998, il numero di detenuti negli Stati Uniti nel 1997 è aumentato di 96.100 persone”.

CONCLUSIONE

Ritenendo l’URSS come la maggior sfida ideologica, la borghesia imperialistica occidentale demonizzò Stalin e l’Unione Sovietica. Ora dopo decenni di propaganda, archivi desecretati russi e americani smascherano insieme queste menzogne antisovietiche. Degno della nostra attenzione è il fatto che la CIA, fonte aspramente antisovietica, abbia pubblicato documenti desecretati che smantellano i veri e propri miti che promuoveva e continua a promuovere nei mezzi di comunicazioni di massa. I file CIA insieme ai documenti declassificati degli archivi sovietici hanno dimostrato che la stampa borghese mentiva sui gulag.

FONTI

13th Amendment to the U.S. Constitution: Abolition of Slavery. (n.d.). Retrieved August 28, 2018, from https://www.archives.gov/historical-docs/13th-amendment

Central Intelligence Agency (CIA). (1989). THE SOVIET FORCED LABOR SYSTEM: AN UPDATE (GI-M 87-20081). Retrieved February 12, 2018, fromhttps://www.cia.gov/library/readingroom/docs/DOC_0000500615.pdf

Central Intelligence Agency (CIA). (2010, February 22). 1. FORCED LABOR CAMPS IN THE USSR 2. TRANSFER OF PRISONERS BETWEEN CAMPS 3. DECREES ON RELEASE FROM FORCED LABOR 4. ATTITUDE OF SOVIET PRISON OFFICIALS TOWARD SUSPECTS 1945 TO THE END OF 1955. Retrieved January 5, 2018, from https://www.cia.gov/library/readingroom/docs/CIA-RDP80T00246A032000400001-1.pdf

Hillary and Bill used ‘slave labour’. (2017, June 08). Retrieved June 10, 2017, from https://www.news.com.au/technology/online/social/hillary-and-bill-clinton-used-black-prisoners-for-forced-slave-labour-in-the-arkansas-governors-mansion/news-story/9af23848a5d44770b538c931c62460fe

Игорь, П. (n.d.). Книга: За что сажали при Сталине. Невинны ли «жертвы репрессий»? Retrieved August 28, 2018, from https://www.e-reading.club/bookreader.php/1008874/Pyhalov_-_Za_chto_sazhali_pri_Staline._Nevinny_li_zhertvy_repressiy.html

Parenti, M. (1997). Blackshirts and reds: Rational fascism and the overthrow of communism. San Francisco, Calif: City Lights Books.

Sousa, M. (1998, June 15). Lies concerning the history of the Soviet Union. Retrieved August 27, 2018, from http://www.mariosousa.se/LiesconcerningthehistoryoftheSovietUnion.html

The Death of Lavrenty Beria. (2015, December 23). Retrieved August 31, 2018, from http://www.historyinanhour.com/2010/12/23/lavrenty-beria-summary

Tracy, J. F. (2018, January 30). The CIA and the Media: 50 Facts the World Needs to Know. Retrieved August 28, 2018, fromhttps://www.globalresearch.ca/the-cia-and-the-media-50-facts-the-world-needs-to-know/5471956

Un discorso rivelatore della Thatcher

Un discorso rivelatore della Thatcher

Di Davide Spagnoli

Premettiamo che non siamo riusciti a reperire in rete il testo dell’originale di questo discorso; ad esempio nell’elenco con i testi dei discorsi pronunciati dalla Lady di ferro esiste la citazione del discorso di Huston, ma non c’è il testo del discorso. In compenso esiste una nota redazionale che dice che non esiste, che non si è parlato di Russia e che questo fatto è oggetto di fantasticherie complottiste… (vedi qui)… Forse la prima volta che questo testo compare è in un libro di un certo Parshev (vedi qui).
Comunque questo discorso ricorre abbastanza spesso in forum politici della Federazione Russa. Se è autentico è un importante conferma di una delle nostre certezze, cioè che il sistema capitalista sionista occidentale, il cosiddetto Blocco Nero per usare un termine del compagno Fidel Castro, ha avuto un ruolo decisivo nell’implosione dell’Unione Sovietica.
Ringraziamo la nostra redattrice Danila Cucurnia per le ricerche nel web.

IL DISCORSO DELLA THATCHER A HUSTON

 

peterlewis

URSS, agosto 1991. Il golpe di Eltsin e quello degli altri.

URSS, agosto 1991. Il golpe di Eltsin e quello degli altri.

REDAZIONE NOICOMUNISTI

DI LUCA BALDELLI

La storiografia, in questo correttamente, fissa nei giorni 19 – 21 agosto del 1991 le date della fine dell’Unione Sovietica, anteponendola, cronologicamente, all’ammainamento della rossa bandiera dell’Urss sul pennone del Cremlino, alle ore 19,45 del 21 dicembre successivo. Il famoso “colpo di Stato“ estivo, dunque, rappresentò la fine di un’esperienza storica gloriosa durata 70 anni, fondata e sulla costruzione del socialismo in un solo Paese e sulla spinta internazionalista volta a liberare l’umanità dalle catene dello  sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’imperialismo, della rapina colonialista e neocolonialista. I prodromi di quella vicenda, vanno però rintracciati negli anni ’80 della controrivoluzione anticomunista mascherata sotto il nome di “perestrojka“: lo smantellamento progressivo della pianificazione centralizzata, l’allentamento della disciplina nei settori della produzione, della distribuzione e del commercio al dettaglio, lo spazio sempre maggiore concesso all’iniziativa privata, con arricchimenti scandalosi di soggetti legati a cooperative e imprese individuali autorizzate, il venir meno, lento ma inesorabile, del ruolo del Partito come soggetto cardine politico – educativo, l’interiorizzazione dei miti consumistici dell’occidente, sapientemente veicolati dalla nuova borghesia oligarchica emergente, in un ampio settore del popolo, furono tutte crepe che, pian piano, portarono all’erosione delle fondamenta, un tempo solide, del socialismo sovietico.

URSS, agosto 1991. Il golpe di Eltsin e quello degli altri.

L’Aral: un mare di bugie tra perestroika e capitalismo

L’Aral: un mare di bugie tra perestroika e capitalismo

REDAZIONE NOICOMUNISTI

Di LUCA BALDELLI

Il mondo capitalista ha rovinato, con i suoi metodi dissennati di consumo delle risorse naturali, produzione e diffusione delle merci, gran parte dell’ecosistema mondiale. Come sempre avviene, in ogni ambito, la borghesia ha sentito pertanto il bisogno di mascherare questa catastrofe planetaria accusando l’Urss ed il sistema socialista di aver devastato l’ambiente e la natura. Uno dei cavalli di battaglia che sono stati lanciati al galoppo nell’arena della disinformazione, è quello del Lago di Aral, che sarebbe stato prosciugato fino a quasi scomparire dai mostri comunisti, sempre intenti a distruggere ogni forma ed elemento del creato. Quanti compagni, anche in buona fede, sono caduti in questa trappola e pensano, tuttora, che il Lago di Aral sia stato del tutto cancellato, fatto scomparire per le draconiane necessità dell’economia sovietica. Tutto falso! Vediamo come stanno realmente le cose un passo alla volta, senza apologie macchiettistiche, certamente, ma anche senza reprimende e catastrofismi pseudo – ambientalisti privi di senso e di base logico – argomentativa.

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Il Lago di Aral è considerato dai russi un mare ed infatti il suo nome, nella lingua di Tolstoj, di Dostoevskij, di Lenin e di Stalin, è “Aral’skoe More”, ovvero “Mare di Aral”. Tale “amplificazionE” lessicale – concettuale, che riflette la weltanschauung del popolo russo, la sua intima, appassionata familiarità con i grandi, sconfinati spazi, la si ritrova, humboldtianamente, anche nelle lingue uzbeka e kazaka, le quali si riferiscono alla grande massa d’acqua in questione, rispettivamente, con i nomi di “Orol Denghizi” ed “Aral Tengizi”. Pure il gruppo etnico dei Karakalpaki, stanziato prevalentemente nella parte nord – occidentale dell’Uzbekistan, utilizza nella sua lingua, appartenente alla famiglia turca al pari di quella uzbeka, l’espressione “Ten’izi Aral”, con posposizione del nome proprio rispetto all’assetto grammaticale uzbeko e kazako. Il Mare di Aral (lo chiameremo d’ora in poi così anche noi, per rafforzare, anche lessicalmente, la nostra opera di smascheramento) è un bacino endoreico (ossia senza emissari) che si estende su più di 8.000 kmq in Asia Centrale, tra Kazakhstan ed Uzbekistan. Tanto per addurre un confronto, si pensi al fatto che il l’area coperta dal Lago di Como è di 146 kmq, quella compresa nel Lago di Costanza misura 536 kmq, mentre il Grande Lago Salato statunitense occupa 4.662 kmq ed il Lago Manitoba, canadese, 4.706 kmq. Se è vero che non possiede emissari, il Mare di Aral ha, però, due immissari principali di eccezionale importanza: essi sono l’Amu Darya (l’Oxos del mondo greco – classico, il Jayhun del mondo antico – persiano) ed il Syr Darya (conosciuto dai greci antichi come Iaxartes). Il primo si snoda per 2.540 km, con una portata media di 2.134 metri cubi al secondo; il secondo percorre invece 2.212 km, con una portata media di 1.234 metri cubi al secondo.

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Il bacino idrogeologico dei due grandi immissari del Mar d’Aral

Sfruttato agli inizi del ‘900, eminentemente per attività di pesca, da rinomati mercanti russi (Lapscin, Ritkin, Makeev e Krasilnikov, solo per citarne alcuni), il Mare di Aral conobbe le prime opere di irrigazione ad esso collegate (per mezzo dell’utilizzo delle acque dell’Amu Darya e del Syr Darya ) a partire dagli anni ’30, quando Stalin, il Partito Comunista Bolscevico dell’Urss ed il Governo sovietico decisero di avviare una gigantesca opera di ingegneria sociale ed economica, rendendo fertili e feconde terre prima desertiche, inospitali, battute da venti aridi e secchi. Grazie a quest’intensa pianificazione di lavori spesso mastodontici, svolti in condizioni ambientali tra le più proibitive immaginabili, l’Asia centrale sovietica cambiò volto in un brevissimo lasso di tempo, passando dall’arcaicità dei modi di vivere e di produrre alla modernità più piena e foriera di benessere: non quella capitalista, con vantaggi per pochi e sfruttamento, disagi e povertà per i più, ma quella socialista, con le nuove acquisizioni ed i progressi messi a disposizione dell’elevamento materiale, spirituale e culturale dell’intero popolo. Una miriade di canali d’irrigazione venne a solcare, rete di provvidenziale alimento per nuovi campi e colture, tutta la zona prossima alla poderosa distesa d’acqua ed anche alcune zone situate più lontano. Grazie a queste realizzazioni, molti uzbeki e kazaki poterono incrementare il loro consumo di riso, grano, frutta e verdura, fino a livelli paragonabili a quelli dell’Europa di oggi (e si partiva da condizioni ben più grame e difficili!).

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Raccolta del cotone in Uzbekistan, ora anche con lavoro minorile semischiavile, ah le meraviglie del capitalismo…

Fu sviluppata, certamente, anche la coltura del cotone: a tal proposito, occorre sottolineare che quanti sostengono che tale coltura fu un’imposizione colonialista della politica economica sovietica, in primis non hanno nemmeno idea di ciò che significhi la parola colonialismo, in secondo luogo qualificano paradossalmente come inutile una coltura che, nelle sue fasi di trasformazione successive al raccolto, dà forma a vestiti, bende e garze per medicazioni. Forse che vestirsi bene ed in maniera elegante nella stagione estiva come in quella invernale, nonché ricevere trattamenti medico – infermieristici adeguati, fuggendo da setticemie e cancrene con elementari accorgimenti (fino agli anni ’30 del ‘900 assai rari, in quei contesti), vuol dire essere succubi del colonialismo? Ad ogni buon conto, negli anni ’50, ossia venti anni dopo la costruzione dei canali di irrigazione, il Mare di Aral non solo non mostrava segni di “crisi”, ma si estendeva, suggestivo, per ben 68.000 kmq, con una lunghezza di 426 km, una larghezza di 284 e una profondità massima pari a 68 m. Tutto ciò veniva dal cielo? No, ma dall’attenzione e dalla cura riversate nella pianificazione delle nuove opere, in armonia con i fabbisogni del popolo e la salvaguardia della natura, da Stalin e da tutto il vertice del Partito e dello Stato, coadiuvati da figure di comunisti del panorama uzbeko quali Usman Yusupovich Yusupov, Sharof Rashidovich Rashidov, Akmal Ikramovich Ikramov (fintantochè costui non si vendette agli inglesi, sempre presenti a mestare nel torbido in quella regione strategica). In quello stesso periodo, mari, fiumi e laghi situati nell’occidente capitalista videro i primi, preoccupanti segni di un inquinamento e di un depauperamento destinati a trasformarli spesso, di lì a poco, in corsi d’acqua bisognosi di risanamento o condannati definitivamente, senza possibilità di appello, alla scomparsa. L’Amu Darya ed il Syr Darya, immissari basilari, scorrevano possenti e argentini, cantando un’ode al rigoglio di una natura prima avara ed inclemente, che il socialismo aveva trasformato da sogno in realtà. Il Mare di Aral brillava in faccia al sole, come i sorrisi dei contadini, degli operai, degli ingegneri kazaki ed uzbeki, in special modo di questi ultimi, i quali erano stati artefici, in larga misura, di un prodigio: se nel 1946, solo per considerare un’annualità, il raccolto di cotone dell’Urss era stato pari a 1,6 milioni di tonnellate metriche, alle porte del 1953 esso toccava ormai i 4 milioni (sarà di 4,3 milioni nel 1954). L’Asia centrale contribuì a queste cifre in ragione del 60 – 70% del totale.

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La fertile vallata dell’Amu Darya

Dopo la morte di Stalin, in particolare dopo il XX Congresso del Partito Comunista, l’Urss virò in direzione non già di un capitalismo rovinoso, come alcuni analisti superficiali, presunti marxisti – leninisti, hanno sempre sostenuto, ma, questo sì, di un nuovo metodo economico di gestione troppo incentrato sul profitto, sugli indici di sviluppo, su di un efficientismo spesso disattento verso l’esigenza di armonizzare lo sviluppo delle forze produttive e, complessivamente, dell’economia, con la tutela delle risorse naturali. Questo fu vero soprattutto nel periodo del revisionista Krusciov, quando la rincorsa ai tassi di crescita divenne a tal punto spasmodica da sfociare, a volte, nell’esito opposto a quello desiderato, con diseconomie evidenti nell’impiego delle materie prime, delle fonti di energia e nei processi produttivi, con l’apparire di fenomeni preoccupanti di penuria e aritmia nell’approvvigionamento della popolazione. I manager d’assalto, trincerati dietro alle loro scrivanie ingombre di carte, alla luce delle massicce lampade di bachelite, impartivano febbrilmente ordini volti a trasformare i diagrammi affissi alle loro spalle in realtà, a volte a discapito dello stesso fattore umano così prezioso e da Stalin sempre posto al centro nell’edificazione dell’economia socialista. Brezhnev, asceso alla direzione del PCUS con l’appoggio di energie giovanili che, cresciute sotto l’ala protettiva di Stalin, avevano sempre visto in cagnesco il dilettantismo kruscioviano, corresse in larga misura la rotta (basti pensare a tutte le leggi emanate per la delocalizzazione di fabbriche inquinanti), ma mai si tornò, strutturalmente, a quell’attenzione, a quell’equilibrio nella pianificazione dello sviluppo economico – sociale, con il rigoroso calcolo comparato di costi e benefici, che Stalin aveva considerato sempre fondamentale e anzi necessario. Le dinamiche relative a tale nuovo approccio non potevano non affettare, di conseguenza, anche i processi inerenti all’utilizzo delle acque che affluivano verso il Mare di Aral.

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Tutto ciò sia detto, chiaramente, senza nulla concedere alle Cassandre dell’antisovietismo professionale: lo specchio d’acqua era ancora in perfetta salute e prometteva un avvenire sempre più prospero ai popoli sovietici che ne traevano nutrimento e beneficio. Accadde però che, ad una nuova politica meno attenta verso le risorse naturali del Paese, si accompagnarono fattori naturali, non prevedibili, che iniziarono, dagli anni ’60, a porre un’ipoteca sule condizioni del Mare di Aral. Mentre la costruzione dei canali di irrigazione ricevette ulteriore impulso e nuovi successi costellarono il firmamento del progresso economico dell’Asia centrale, per la prima volta la vitale risorsa idrica dette segni di criticità: a partire dal ’61, si registrò una diminuzione annuale del livello del Mare di Aral variabile tra i 20 e i 90 centimetri. Parallelamente alla realizzazione di opere irrigue, l’ittiofauna, valorizzata e tutelata negli anni ’40 e ’50 a scopo ambientale, con vincoli ben precisi posti alle attività di pesca, cominciò dagli anni ’60 ad essere inquadrata e sfruttata su vasta scala come risorsa alimentare: se nel 1946 il pescato del Lago di Aral era ammontato a 23.000 tonnellate, negli anni ’80 esso giunse a quota 60.000 tonnellate, con 77 nuovi centri di pesca, allevamento e trasformazione industriale del pesce creati in Kazakhstan ed Uzbekistan. Uno sviluppo impressionante, che, in parte, compromise la salute dello specchio d’acqua incastonato, un tempo, tra i deserti. Intanto, però, per bilanciare critiche ed osservazioni, dobbiamo dire che, nello stesso periodo, la superficie delle terre irrigate nell’Asia centrale sovietica passò da 4,5 a 7 milioni di ettari. Ovvero, per un Mare di Aral che si restrinse a causa del’incremento della presenza di colture particolarmente idrovore, vaste porzioni di territorio uzbeko e kazako, prima aride o interessate da debolissimi sistemi di irrigazione, dipendenti dai cronici capricci di una pluviometria già di per sé poco generosa, conobbero la floridità e condizioni adatte all’insediamento umano mai viste prima. Questo, i coccodrilli che piangono sulle sorti del Mare di Aral per dar sfogo al loro antisovietismo, omettono sempre di ricordarlo! Mai una volta che si menzioni il fatto che il Kazakhstan e l’Uzbekistan, lungi dal rappresentare “scatoloni” di cotone destinati a questo ruolo da inesistenti “colonialisti” al potere a Mosca, videro incrementare costantemente, negli anni del socialismo, in primo luogo le colture alimentari, che procedettero di pari passo con quelle del cotone e non ne furono certo ancelle.

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Basti pensare che, negli anni ’80, solo l’Uzbekistan produsse la bellezza di 136.000.000 di litri di vino, assieme all’85% dell’intero raccolto sovietico di uva sultanina e uva passa. L’Uzbekistan era, all’epoca, il più grande produttore di frutta e verdura dell’Urss! Scavando ulteriormente negli annali statistici, si vede che la Repubblica centro – asiatica, nel 1991, poco prima del crollo dell’Urss pilotato da Gorbaciov e compagnia, produsse ben 3.348.000 tonnellate di vegetali (su 165.700 ha) e 914.000 tonnellate di meloni (su 83.200 ha); nel 2002, in piena era capitalista, le cifre relative a tali prodotti subiranno un tonfo, precipitando, rispettivamente, a 2.936.000 e a 479.000 tonnellate. Perfino la patata, quasi del tutto sconosciuta prima del 1917 da queste parti, nel 1990, nel caos e nella disorganizzazione della perestrojka, era ancora coltivata su vaste estensioni e garantiva una quantità pro – capite destinata al consumo tutt’altro che trascurabile, pari a 16/17 kg annui, integrata ovviamente da altri quantitativi messi a disposizione dalla Repubblica Socialista Sovietica di Bielorussia, da quella ucraina e dalla Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa, ovvero dai maggiori produttori sovietici e mondiali del tubero. Il cotone, nel 1990, occupava 1.800.000 ha e, dal 1980 al 1990, registrò una produzione pari a più di 5.000.000 di tonnellate. Troppo? A ben vedere, essa non fu poi di molto superiore a quella degli anni ’50, anche se la consistenza delle riserve idriche mano a mano andò scemando ed una pianificazione più lungimirante ed efficace tanto a livello centrale quanto repubblicano avrebbe, dal 1980, consentito di parare il colpo. Di certo, non vi fu alcuna “truffa del cotone” volta a gonfiare artatamente e sistematicamente le rese, almeno nei termini in cui essa fu raccontata e anzi montata dai mezzi di comunicazione per impulso di quegli ambienti che, volendo tirare la volata a Gorbaciov, e volendo colpire una Repubblica, come l’Uzbekistan, fedele a Brezhnev e alla vecchia guardia del PCUS, profusero ogni sforzo nella decapitazione, anche per via giudiziaria, di un’intera classe dirigente, con Sharof Rashidov in testa, eletto, quest’ultimo, a capro espiatorio di una lotta per il potere oscura, che cercheremo di inquadrare in un prossimo studio. Ad ogni modo, accanto a circa 5.000.000 di tonnellate di cotone, nel 1990 vi fu una produzione di grano e cereali pari a 1.400.000 tonnellate, dato assai rilevante, per una Repubblica esposta a condizioni climatiche tutt’altro che propizie per quel genere di colture, anche una volta eseguite le più avanguardistiche opere di irrigazione e i più efficaci interventi di agronomia.

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Campi uzbecki di cotone

Complessivamente, a smentire la tesi della prevalenza quasi esclusiva del cotone, abbiamo lo schema della ripartizione in percentuale delle colture: nel 1990, al cotone fu riservato il 41% della superficie coltivata, al grano il 32%, alla frutta l’ 11%, ai vegetali il 4%, ad altre colture alimentari il 12%. Il 59% della superficie agricola uzbeka, quindi, non era occupata da cotone! A dispetto di ogni catastrofismo, nel 1980 il Mare di Aral aveva ancora una superficie pari a 51.675 kmq (nel 1950 / 60 era di 68.000) e un livello medio pari a 46,40 m (nel 1950 / 60 era di 53 – 54 m). Con una maggiore attenzione a certi fenomeni distorsivi nell’impiego di acqua, aggravati da alcuni ostacoli naturali insuperabili, contestualmente ad un più attento calcolo dei reali fabbisogni di cotone e di altre colture, si sarebbe potuto non già impedire del tutto questa diminuzione (come vedremo tra un po’, non sarebbe stato possibile), ma, questo sì, arginarla. Nel 1990, dopo la tanto decantata riconversione delle colture andropoviano – gorbacioviana, la superficie del Mare in questione si era comunque ristretta a 36.800 kmq, mentre il livello medio era sceso a 38,24 m. La perestrojka, dunque, non ha recato benefici nemmeno al Mare di Aral, a dispetto di strombazzamenti mediatici ossessivi e disinformanti!

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Il fatto degno di nota, però, quello più occultato dai media mondiali dal filone antisovietico in tutte le sue salse, è che la vera crisi del Mare di Aral non è cominciata né negli anni ’30, né negli anni compresi dal 1960 al 1990, quando pure si sono verificate, come abbiamo avuto modo di rilevare, alcune pecche nella conduzione economica e, nello specifico, nella gestione della risorsa della quale stiamo trattando. Il Mare di Aral ha conosciuto il processo più imponente di ritiro a partire dal crollo dell’Urss. Questa, la verità più lampante e taciuta dal filone antisovietico in tutte le sue salse!

Vediamo le tappe di questo irrefrenabile declino: dopo la divisione del Mare in Piccolo Aral e Grande Aral, a partire dalla fine degli anni ’80, per i ben noti fenomeni di evaporazione e depauperamento, nel 1993 la superficie scendeva a 36.182 kmq, per poi restringersi fino a 17.200 kmq nel 2004, con 30.40 m di livello medio. Nel 2009 si giunse a 7.434 kmq, per risalire a 13.836 nel 2010 e ridiscendere a 8.303 kmq nel 2015. Il tutto accompagnato, naturalmente, da un cospicuo aumento dei livelli di salinità. Se fossimo come gli antisovietici di professione, se fossimo impastati della loro stessa malafede, della loro disonestà intellettuale, del loro disprezzo per qualsiasi analisi obiettiva e spassionata, potremmo sostenere tranquillamente che il capitalismo ha ucciso il Mare di Aral, che l’unico e solo imputato da condurre alla sbarra in un ipotetico processo ambientale, è il modello di sviluppo impostosi in Uzbekistan dopo il 1991. Essendo marxisti, rigorosi e metodici negli approfondimenti e nelle disamine, non possiamo non prendere in considerazione altri dati di carattere storico e scientifico che contribuiscono a far luce sul processo di crisi di uno specchio d’acqua il quale, nonostante tutto, ancora oggi surclassa per estensione, come abbiamo avuto modo di vedere, vari laghi mondiali assai rinomati.

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Innanzitutto, il Mare di Aral ha sempre presentato massicce fluttuazioni dei suoi livelli nel corso di varie epoche: tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600, vi fu un processo di ritiro impressionante che condusse alla formazione di isole ed isolette, da Barsakelmes all’Isola della Rinascita, passando per quelle di Kaskakulan, Kozzhetpes, Uyaly, Biyiktau. Studi seri e circostanziati condotti da scienziati sovietici, russi ed uzbeki, fondati su calcoli complessi ed esaustivi, sono arrivati alla conclusione che, ad incidere sull’abbassamento del livello e sul restringimento del Mare di Aral, non è stata tanto l’irrigazione delle colture (responsabile solo in ragione del 23%), quanto la duplice interazione di fattori climatici incontrollabili o non interamente dipendenti dalle scelte di sviluppo compiute (per un 15%) e di fenomeni strutturali di permeabilità del suolo che hanno condotto al depauperamento delle risorse idriche (per un 62%).

Ora, con l’ausilio delle percentuali, riusciamo meglio a comprendere quanto accennavamo sopra, e cioè che limitando la coltura del cotone si sarebbe solo ridotto il danno, non lo si sarebbe di sicuro impedito (il che non vuol dire, lo ripetiamo, che non si sarebbero dovuti profondere sforzi in tal senso, visto che ogni miglioramento è da salutare sempre con favore).

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A coloro i quali vaneggiano di prelievi idrici che non si sarebbero dovuti compiere per niente, rispondiamo che il problema, lo stesso problema, l’avrebbero tirato fuori, sempre strumentalmente, qualora il Mare di Aral fosse stato maggiormente preservato e, al suo posto, si fossero condannati al deserto perpetuo tanti luoghi dell’Uzbekistan e dell’Asia centrale oggi resi fertili e ridenti dalle opere irrigue compiute durante l’era sovietica. In quel caso, oggi assisteremmo al pianto greco su miserabili tribù di predoni, vaganti alla ricerca di cibo in una natura ostile piena di malattie e morti per fame. Chi poi lamenta l’assenza di opere di adduzione di acqua dalla Siberia, attraverso il fiume Ob, dovrebbe spiegare per quale misteriosa ragione l’Aral è sacro mentre nessuna importanza avrebbe il clima della Siberia, che da quelle opere gigantesche di conduzione idrica, ipotizzate ed accantonate già in epoca sovietica, avrebbe ricevuto e riceverebbe un colpo esiziale, con danni incomparabilmente più gravi di quelli subiti dal Mare di Aral.

Non vi è stato quindi alcun genocidio ambientale pianificato dai “perfidi sovietici”, così come ce lo hanno dipinto di volta in volta faziosi ed apocalittici predicatori, pseudo – ambientalisti alla ricerca di fondi e visibilità per le loro cause (in nulla e per nulla coincidenti con l’ambientalismo serio, che è e resta necessario), agenti stranieri e diplomatici interessati alla distruzione dell’economia dell’Urss, al soffocamento di ogni velleità di rinascita di uno spazio eurasiatico forte, integrato e concorrenziale con le talassocrazie anglosassoni (in tal senso sono da leggersi gli strali diretti contro l’agricoltura uzbeka, e contro la coltura del cotone in particolare, da parte dell’ambasciatore inglese Craig Murray una decina di anni fa).

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Grazie ai tardivi provvedimenti del governo kazako il livello delle acque, almeno nella parte settentrionale del bacino d’Aral, sta crescendo

Piotr Zavyalov, Vice – direttore dell’Istituto di Oceanologia dell’Accademia delle Scienze russa, ha affermato più volte che, pur nella crisi forte che l’ha colpito, il Mare di Aral conserva un proprio ecosistema vivo ed assai interessante. Non vi è stata nemmeno, attorno al Mare di Aral, nei luoghi popolati ad esso prossimi, quella pandemia, quell’emergenza sanitaria che certi allarmisti da strapazzo e alcuni scienziati disinformati e disinformatori hanno teso accreditare anche in sede scientifica: i Karakalpaki non sono quel popolo martoriato da malattie croniche, da “piaghe d’Egitto” impietose e crudeli che certi giornalisti e scienziati al soldo del capitalismo ci hanno dipinto, ma erano in epoca sovietica e sono, in parte ancora oggi, uno dei popoli più prosperi e laboriosi dello spazio eurasiatico. Alcuni dati sul movimento demografico dei Karakalpaki parlano da soli, anche rispetto al loro stato di salute: nel 1979 essi ammontavano, in Uzbekistan, a 281.800 individui, mentre nel 1989 il censimento pansovietico ne rilevava, sempre nella Repubblica centro – asiatica, 390.000, con un aumento vicino al 40% (oggi sono 510.000)! Un tasso di accrescimento che, in sé e per sé, fa piazza pulita di ogni catastrofismo legato alla questione del Mare di Aral . Il tasso di natalità dei Karakalpaki era, attorno agli anni 2000/2001, del 23 per mille (superiore alla media uzbeka), mentre il tasso di mortalità era del 5.9 per mille (di poco superiore alla media dell’Uzbekistan). Numeri che di tutto sono specchio fuorché di un girone dantesco. Da considerare, poi, il fatto che la natalità, in quel periodo, era in forte declino (quasi dimezzata) rispetto al periodo sovietico e la mortalità, sempre rapportata a dieci – quindici anni prima, era in aumento.

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Pesca nella parte nord del Mar d’Aral

Sorvoliamo del tutto, per ora, sulla grottesche e ridicole accuse circa la presenza di bacilli pestilenziali nella zona dell’Aral, sfuggiti al controllo delle autorità responsabili della vigilanza in tema di guerra chimica e batteriologica e riemersi dopo il ritiro del lago e l’abbandono di installazioni militari. Tratteremo questo tema in un altro articolo.

In conclusione, possiamo dire che la vicenda dell’Aral è la stessa vista in mille altre occasioni: un imbroglio della propaganda antisovietica, la quale, nella sua sublime imbecillità, ritiene di poter fare a meno e del buonsenso e della scienza. Non è un atteggiamento degno di un onesto studioso, né tantomeno di un marxista – leninista, quello di ondeggiare tra l’apologia del “ tutto rose e fiori “ e la vis delendi del “ tutto va male “ del “ tutto è una catastrofe “. Ciò vale rispetto ad ogni questione, problematica, fatto o principio.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI E SITOGRAFICI

Purtroppo le fonti disponibili sono, in larga parte, denigratorie dell’epoca sovietica, ma, se è vero che opere in netta difesa della verità storica sull’Aral sono ancora tutte da scrivere, è altrettanto vero che contributi più obiettivi di quelli solitamente circolanti sul tema erano e sono reperibili. Ne diamo le coordinate qui sotto. Tutte le fonti russe sono traducibili con l’ausilio del PC.

Sulla ricerca scientifica inerente cause e contesti delle vicende del Mare di Aral: академик Н. А. Шило «Причина исчезновения Арала найдена?», in «Наука в России». № 6 1995.

Sulla storia del Mare di Aral: https://orexca.com/rus/prearal.shtml (vi sono imprecisioni ed esagerazioni, ma la messe di dati offerta è comunque utile e meritevole di apprezzamento).

Sul dibattito inerente il Mare di Aral: http://expomod.ru/izvestnykh-prichin-pochemu-vysokhlo-aral/

Mappa “evolutiva” del Mare di Aral:

Sulla demografia dei Karakalpaki e dell’Uzbekistan:  www.karakalpak.com/stanpop.html

 

Chernobyl: sabotaggio imperialista?

Chernobyl: sabotaggio imperialista?

REDAZIONE NOICOMUNISTI

Di LUCA BALDELLI

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L’impianto di Chernobyl subito dopo l’esplosione

La data del 26 aprile 1986 è entrata nella storia, e ci rimarrà per sempre, per il tragico incidente di Chernobyl: la “Чернобыльская авария” o “Чорнобильська катастрофа”, nell’accezione ucraina ancora più incisiva e forte, è da più di 30 anni, e lo sarà ancora per molti anni a venire, il simbolo dei rischi connessi al nucleare e al suo sviluppo. La versione ufficiale ci ha informati, e continua a ripeterci, che in quel giorno, alle ore 1:23, presso la centrale nucleare situata a 3 km da Pryp’jat e a 18 km da Chernobyl, avvenne il fatale incidente: il personale, in maniera inopinata ed irresponsabile, in violazione di numerosi protocolli e allo scopo di eseguire un test per saggiare la sicurezza complessiva dell’impianto, avrebbe aumentato repentinamente la temperatura nel nocciolo del reattore numero 4. La scissione dell’acqua in idrogeno ed ossigeno, determinata da quella dinamica, avrebbe provocato la rottura delle tubazioni del sistema di raffreddamento del reattore, con esplosione, scoperchiamento dello stesso e conseguente, vasto incendio della grafite, minerale presente, negli impianti nucleari, in barre per assorbire le radiazioni. Una nuvola di materiale radioattivo, sprigionandosi, avrebbe esteso la sua mortifera ombra su un’area sterminata. Fin qui, la versione ufficiale, illuminante e certamente degna di fede rispetto alla descrizione oggettiva di alcuni passaggi, ma assolutamente lacunosa e omertosa sul quadro generale esistente in quella maledetta notte dell’aprile ’86.

Versione che diventa addirittura grottesca e paradossale quando pretende di accreditare presunte carenze strutturali della centrale nucleare esistente, costruita invece secondo i più rigorosi criteri allora esistenti, a livello edile ed ingegneristico. Che poi il nucleare sia intrinsecamente pericoloso, vulnerabile e rischioso, questa è una considerazione, almeno per chi scrive, assolutamente condivisibile, ma che vale a Chernobyl come a Fukushima e in ogni altra parte del mondo. La verità ufficiale, diffusa con al potere il revisionista Gorbaciov, legato alle centrali imperialiste e ai circoli mondialisti, è tutto fuorché oro colato da custodire nei crogioli della ricerca storica: è – con ogni evidenza – una verità di comodo, come dimostrano diversi fatti. Vediamoli uno per uno.

L’insigne fisico nucleare Nikolaj Kravchuk, supportato da altri eminenti calibri della scienza russa ed ucraina, tra i quali I.A. Kravets e V.A. Vyshinsky, ha presentato, nel 2011, uno studio sull’incidente occorso alla centrale nucleare ucraina, dal titolo di per sé eloquente: “L’enigma del disastro di Chernobyl”. Frutto di ricerche condotte con coraggio, abnegazione e autentica sete di verità, tale studio ha sollevato polemiche e provocato la levata di scudi del mondo accademico, chiuso nel suo conformismo, quando non nella complicità verso la disinformazione pilotata dal potere che lo sostiene, lo foraggia, ne avalla o ne impone le tesi ufficiali. Per il suo testo decisamente al di là di ogni verità di comodo, Kravchuk ha subito un ostracismo che nemmeno al più immorale e abietto dei delinquenti sarebbe toccato in sorte: dileggiato, emarginato, minacciato, è stato infine espulso (lui, studioso tra i migliori presenti sul campo!) dall’Istituto di Fisica Teorica “Bogoljubov” dell’Accademia Nazionale delle Scienza dell’Ucraina, quello stesso Istituto che ha visto, nei decenni, operare con profitto e risultati apprezzati a livello mondiale calibri quali lo scienziato eponimo, ovvero Nikolaj Nikolaevich Bogoljubov, Aleksandr Sergeevich Davydov, Aleksej Grigor’evic Sitenko. Il torto di Nikolaj Kravchuk qual è stato? Uno solo, ma imperdonabile: quello di aver evidenziato, con rigore analitico e inappuntabile metodo scientifico, i talloni d’Achille della tesi ufficiale sull’incidente di Chernobyl, diffusa subito dalla cupola gorbacioviana affinché il mondo pensasse a negligenze, arretratezze strutturali della base materiale industriale e scientifica dell’Urss, debolezze inesistenti, anziché ad altro, in primis a complotti orchestrati e condotti per minare l’Urss in quanto unica potenza capace di competere con il mondo capitalista e superarlo per produttività, concorrenzialità, capacità di costruire una società migliore, a misura d’uomo. In primis, Kravchuk dimostra, con dovizia di dati, come l’azione di sollecitazione sul reattore n. 4 sia stata reiterata nel tempo, a partire dal 1° aprile 1986 fino al 23 dello stesso mese, e non esercitata solo la notte del tragico incidente, nel quadro del famoso “test di sicurezza”, come ha preteso e pretende il “dogma” ufficiale. Tutto ciò in nome di un obiettivo, lucido e scientemente perseguito, volto a sabotare la centrale. Kravchuk non usa troppo la parola “complotto”, o meglio non ne fa abuso, ma quando scrive che, a Chernobyl, nell’aprile del 1986, sono state poste in essere “azioni ben pianificate e pre – implementate”, egli intende rendere pienamente intellegibile una situazione nella quale tutto ha avuto posto, fuorché la casualità.

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L’enorme cappa protettiva realizzata sopra il luogo del disastro

In particolare, il reattore n. 4 era stato stipato di materiali radioattivi con un contenuto fino a 1500 MegaCurie (il “Curie” è l’unità di misura della radioattività, adottata a partire dal Congresso Internazionale di Radiologia di Bruxelles del 1910). In alcune cellule del reattore, poi, era presente del Plutonio – 239, combustibile utilizzato nei sottomarini nucleari e potente fattore di innalzamento della temperatura complessiva. Tutto questo, non poteva essere né casuale né incidentale: dobbiamo pensare vi fosse, altresì, la deliberata volontà di mandare in tilt l’impianto, di provocare un incidente, a meno di non postulare la follia, l’insania di qualcuno come il movente unico e solo del fatto, dopodiché non si spiegherebbero, però, le coperture, gli insabbiamenti, i depistaggi sistematicamente attuati dal vertice del potere, in Urss come a livello mondiale. Vi sono però altri tasselli che, messi insieme, vanno a comporre un mosaico inquietante: la notte del 26 aprile, qualificati specialisti in forza alla centrale, a partire da A. Chernyshev, non furono autorizzati a prestare servizio e altri presenti fecero di tutto, disperatamente, per fare in modo che Anatolij Stepanovich Djatlov, ingegnere capo, quadro direttivo della centrale, stoppasse l’assurdo test di sicurezza, nel quale, lo ribadiamo, la maggior parte dei sistemi di protezione erano stati disattivati per… saggiare il livello di sicurezza dell’impianto (!!!). Come se, per testare la sicurezza di un’automobile, la si spingesse a 200 all’ora lungo una discesa, con i passeggeri privi di cinture di sicurezza e le portiere spalancate. Vi era stata, da parte di molti quadri tecnici, una sollevazione generale contro le criminali sollecitazioni, ripetute nel tempo, del reattore n. 4? Djatlov era lo strumento di una volontà superiore alla quale non aveva voluto o saputo opporsi? Di certo, si sa che almeno due tecnici, Aleksandr Akimov e Leonid Toptunov, furono minacciati di licenziamento per essersi opposti al disinserimento dei meccanismi di sicurezza, misura questa non solo folle, ma anche proibita dai protocolli disciplinanti il funzionamento della centrale. Sono ancora molti i lati oscuri della vicenda, ma, di certo, in quella primavera solo apparentemente dolce e rigenerante di 31 anni fa, a Chernobyl tutto era stato predisposto per la creazione di una “bomba” devastante, pronta ad esplodere senza freni, e l’esito fu, in tal senso, coronato da successo. Non è tutto, però: altri tre elementi aggiungono alla disamina dei fatti un corredo di precedenti e di circostanze da brivido. Già nel 1982 (ci si concentri su questa data, come vedremo in seguito, strategica!) il reattore n. 1 della centrale in questione, sempre a causa di “manovre errate”, aveva subito la distruzione dell’elemento centrale e si era evitata la catastrofe solo grazie alla prontezza e alla perizia del personale.

Qualche anno dopo la tragedia, poi, vicino al teatro dell’esplosione furono ritrovate tracce di TNT e di esplosivo al plastico: ne parlò il giornale russo “Trud” in un articolo pubblicato nel numero 74 del 1995, subito circondato dal chiasso assordante dell’omertà, della congiura del silenzio, come sempre avviene quando la verità viene sbattuta in faccia a chi pensa che il Re sia nudo. A Chernobyl vi fu anche un’esplosione di natura terroristica? Una “doppia bomba”, con effetto combinato di ordigno ed esplosione indotta del reattore?

Nessuno, su questo, ha fornito risposte efficaci e convincenti. Come nessuno le ha anche solo adombrate rispetto a quanto sostenuto dagli studiosi Je. Sobotovich e S. Chebanenko, i quali hanno riferito di aver trovato, nella zona della centrale nucleare, un gran numero di tracce di uranio altamente arricchito, ricollegando questo al “carico segreto” con il quale era stato riempito il reattore n. 4 esploso. Chi poteva avere interesse a generare un disastro? E com’è possibile pensare che una parte dei tecnici presenti a Chernobyl accettasse di suicidarsi, anche in nome di piani eversivi condivisi? Andiamo per ordine. Come abbiamo già accennato, l’interesse a sabotare l’economia dell’Urss, il suo possente apparato infrastrutturale tecnico – scientifico, era ben vivo e anzi prioritario nelle strategie dell’imperialismo, specie dopo l’ascesa al potere, negli Usa, di Ronald Reagan, sostenuto dalle più agguerrite lobbies anticomuniste. Abbiamo prima parlato del 1982, anno nel quale il reattore n. 1 della centrale di Chernobyl subì un danno derivato da azioni “improvvide” del personale in servizio. Ebbene, in quello stesso anno la CIA di William Casey dava inizio al suo piano aggiornato di destabilizzazione dell’Urss e dei Paesi socialisti, mediante sabotaggi e attentati, piano approvato e “vidimato” da Reagan nel mese di gennaio, in coincidenza temporale con fatti come il rapimento Dozier in Italia, pilotato dai servizi Usa, e il massiccio finanziamento del sindacato anticomunista polacco “Solidarnosc” ad opera delle centrali imperialiste. Il via alle “danze” terroristiche ed eversive lo dà l’esplosione di un gasdotto in Siberia, generata dall’impiego di un software difettoso, esportato deliberatamente dagli Usa in Urss per produrre danni irreversibili. Il fuoco ed il fumo che si sprigionarono dalla deflagrazione, furono ripresi dai satelliti ed allarmarono un gran numero di persone, convinte che fosse avvenuta una catastrofe nucleare. Tutto ciò è stato raccontato, fin nei più minimi dettagli, da Thomas C. Reed, ex membro del Consiglio per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti d’America, nel suo libro dal titolo “At the Abyss: An Insider’s History of The Cold War” (“Nell’abisso: una storia della guerra fredda scritta da uno all’interno”), mai tradotto in Italia, Paese dove certe sudditanze dure a morire arrivano, spesso, al tragicomico epilogo dell’eccesso di zelo censorio, anche dopo che il “burattinaio” ha mostrato i fili. Alla luce di quanto narrato e documentato da Reed, come escludere che anche a Chernobyl, nel 1982 e nel 1986, possa essere avvenuto qualcosa di simile? E qui già sento aleggiare le obiezioni, già prima fugacemente menzionate, di chi sa guardare poco lontano dal suo naso, ma anche di chi, in buona fede e sincera volontà di capire, strabuzza gli occhi davanti a scenari da Dottor Stranamore: com’è possibile che delle persone, per quanto pedine di un complotto, abbiano accettato scientemente di provocare un danno in una centrale nucleare dalle prevedibilissime tragiche conseguenze, in primis su esse stesse? Chi si pone un simile interrogativo (legittimo nella misura in cui chi lo avanza non si è dato già risposte refrattarie ad ogni chiarimento in senso opposto), deve tener presente che, quando si studia un sabotaggio e lo si mette in atto, le conseguenze, spesso, vanno ben oltre le intenzioni. La notte del 26 aprile 1986, plausibilmente, chi ha attuato i piani del complotto pensava, di certo, ad un sabotaggio che avrebbe comportato un danno ridotto, o non così devastante come quello che poi avvenne. L’importante era infliggere un vulnus all’economia ed all’immagine dell’Urss, consci del fatto che, con il nuovo indirizzo della “Perestrojka”, i panni sarebbero stati non lavati in casa, come avveniva prima (e giustamente, per certi fatti!), ma esposti in pubblico, a rinfocolare il coro mondiale del dileggio per l’ “arretrata” e “pericolosa” tecnologia sovietica. La sottovalutazione delle conseguenze riconduce all’umana fallibilità, in questo caso accompagnata da comportamento criminale dei tecnici non solo in ordine all’atto compiuto, ma anche alla leggerezza (questa sì) con la quale si pensò di scartare a priori conseguenze più gravi. Ciò, naturalmente, nell’ipotesi in cui complotto vi sia stato, e su questo chi scrive intende non affermare dogmi di fede, ma portare elementi di riflessione. Le vicende processuali di alcuni responsabili della tragedia, in primis quella che interessò l’ingegner Djatlov, lasciano pensare a una trama molto poco “cristallina”: il dirigente in questione fu condannato, nel 1986, a 10 anni di colonia penale, ai sensi del Codice Penale della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, ma quattro anni dopo venne rilasciato, ufficialmente per una malattia grave (morirà nel 1995, a 64 anni). Appoggiato e sostenuto ad ogni piè sospinto dagli immancabili templari dell’antisovietismo Andrej Sacharov ed Elena Bonner, Djatlov dette la colpa di tutto quanto era accaduto ai progettisti dell’impianto, tesi debolissima e, anzi, inconsistente, visto che l’impianto di Chernobyl, a detta di molti scienziati, anche occidentali, era stato costruito con tutti i crismi della sicurezza strutturale. Djatlov sapeva e voleva coprire responsabilità sue e di altri? Se poi a questo associamo il ritrovamento di tracce di TNT e di esplosivo al plastico attorno all’area dell’incidente, allora si può pensare addirittura ad un doppio binario: sabotaggio interno ed esplosivo collocato all’esterno, a rafforzare gli effetti disastrosi della deflagrazione, da parte di agenti stranieri introdottisi furtivamente e poi prontamente fuggiti. Ipotesi, congetture, certo, ma sostenute dai lati oscuri della vicenda, dai suoi “buchi neri” non ancora colmati dalla benefica luce della chiarezza, non meno che da fatti espliciti e sottaciuti o censurati con violenza. In tutto ciò, cosa sapeva Gorbaciov? Come minimo, vi erano quinte colonne al servizio dell’imperialismo, nel suo entourage, ma la sua stessa figura, come testimoniano le dichiarazioni rese all’Università di Ankara nel 1999, è tutt’altro che adamantina: l’ex Segretario del PCUS, coccolato dai circoli imperialisti mondiali, ha pubblicamente affermato, in Turchia, di aver lavorato con gli americani per la disgregazione dell’Urss. Non si spiegherebbero altrimenti misure e provvedimenti economici e politici che minarono la stabilità dell’Urss, il suo benessere e il suo potenziale produttivo, facendo regredire la seconda superpotenza mondiale allo status di colonia. Che anche Chernobyl abbia fatto parte della congiura antisovietica è perfettamente plausibile, quindi, con attori e comparse non solo stranieri, ma anche all’interno delle frontiere del Paese, a ripetere il copione stabilito almeno fin dal 1982 dai “gentiluomini” di Langley, come li definiva lucidamente, e con pepata ironia, la stampa sovietica fin dagli anni ’60.

Riferimenti biblografici, sitografici e video

https://youtu.be/5_wzZqL7v0I

https://www.youtube.com/watch?v=I6QS9VDUnIA

https://www.youtube.com/watch?v=_tLwsoNZCKM

https://www.youtube.com/watch?v=c6md6nmaNao

https://www.youtube.com/watch?v=yfItwic8U0c

http://cccp-revivel.blogspot.it/2013/06/chernobyl-byl-vzorvan-chtoby-razvalit-sssr.html

https://prolecenter.wordpress.com/2016/04/26/chernobyl-disaster-could-have-been-cia-sabotage/

http://russ-history.blogspot.it/2015/04/the-chernobyl-disaster-was-terrorist.html

https://patriotnewstwo.wordpress.com/2016/01/24/intentional-explosion-of-chernobyl/

http://www.km.ru/world/2013/06/05/chernobylskaya-katastrofa/712470-tragediya-chernobylya-mogla-byt-rezultatom-zagovor

https://aurorasito.wordpress.com/2015/03/14/il-crollo-dellunione-sovietica-la-storia-del-tradimento-di-gorbaciov-e-eltsin/

https://it.sputniknews.com/mondo/201604262550811-chernobyl-tragedia-30-anni/

https://sputniknews.com/analysis/20090424121301292/