Standing Rock, la più grande mobilitazione indigena da un secolo a questa parte

Standing Rock, la più grande mobilitazione indigena da un secolo a questa parte

REDAZIONE NOICOMUNISTI

DI SILVIA ARANA

FONTE

Traduzione di Guido Fontana Ros

Nello stato del Dakota del Nord, Standing Rock fa parte della riserva Sioux come comunemente vengono chiamati i popoli aborigeni Dakota, Lakota e altre tribù delle grandi praterie. il fiume Missouri, fonte d’acqua potabile per circa 17 milioni di persone, attraversa il territorio, che ricade sotto la giurisdizione delle autorità indiane della Standing Rock Indian Reservation a norma dei trattati firmati con il governo degli USA.

In violazione dei trattati e contro la volontà dei sioux, il gruppo petrolifero Energy Transfer Partners intende costruire un oleodotto che andrà a distruggere il sito sacro e il cimitero indiano di Standing Rock, inoltre il tratto sotterraneo dell’oleodotto in questione passerà sotto sotto il letto del fiume Missouri. Il progetto è un investimento da 3,8 miliardi di dollari, finanziato da Goldman Sachs, Bank of l’Amérique, HSBC, UBS, Wells Fargo e altre grandi banche. L’oleodotto ha un’estensione di 1.880 km, va dai giacimenti petroliferi di Bakken nel Dakota del Nord all’Illinois passando per il Dakota del Sud e per lo Iowa. Dalla primavera del 2016 migliaia di persone si sono radunate a Standing Rock, molti provenienti da molti nazioni indigene, per protestare contro la costruzione dell’oledotto che distruggerà i loro luoghi sacri e contaminerà l’acqua. Essi si definiscono “i protettori dell’acqua“. 

Si stima che 300 fughe di petrolio per anno abbiano avuto luogo negli oleodotti del paese [1], ed è questo il motivo per cui i difensori dell’acqua non credono affatto alle promesse dell’impresa, degli ingegneri dell’esercito e delle autorità per cui l’ “oleodotto è sicuro”.

La più grande mobilitazione indigena da più di cento anni

“Standing Rock è il più grande concentramento di indiani che io abbia mai visto nella mia vita; ogni giorni nuove bandiere di diverse tribù vengono aggiunte… a partire dalla sesta settimana ha cessato di essere un accampamento per trasformarsi in una comunità… noi quando prendemmo posizione contro l’oleodotto, non sapevamo che avremmo avuto questo immenso sostegno… questa terra è un sito sacro del popolo Lakota; inoltre l’oleodotto contaminerà l’acqua del fiume Missouri… il Corpo degli ingegneri dell’esercito non si è consultato con le tribù.

L’oleodotto Dakota Access Pipeline ha dei tratti sotterranei sotto il letto del Missouri. Gli oleodotti hanno una storia di perdite, essi hanno contaminato ill suolo, l’aria e le falde sotterranee…se sarà costruito, distruggerà non solo il fiume in questa zona, ma anche più a valle. Le tribù si sono assunte la loro responsabilità come protettrici. Bisogna prendersi cura della terra, dell’acqua, dell’aria… un giorno durante la nostra marcia quotidiana verso il sito sacro, le nonne e le madri hanno detto agli sterratori che mai avrebbero permesso la distruzione di un sito sacro. Come risposta, i guardiani, alle dipendenze di aziende private di sicurezza, hanno aizzato i cani contro la gente. Qualcuno fra i Protettori dell’acqua è finito all’ospedale a causa dei morsi… dopo i cani useranno le armi…”.

Questo diceva lo scorso ottobre Dennis Banks (79 anni). Egli è un leader storico degli indiani oltre ad essere il cofondatore dell’American Indian Movement [2].

Come ha predetto Dennis Banks, la repressione contro la comunità dei Protettori dell’acqua è andata crescendo nel corso delle successive settimane, fino a raggiungere il picco, domenica 20 novembre, quando, con una temperatura glaciale di -5°, la polizia ha represso i manifestanti con dei getti di acqua, provocando centinaia di casi di ipotermia. Sono anche stati utilizzati gas lacrimogeni, spray al peperoncino e proiettili di gomma che hanno ferito più di trecento manifestanti. Il caso più grave è stato quello di Sophia Wilansky (21 anni) che è stata ferita da una granata che l’ha colpita a un braccio, lacerandole i tessuti e fratturandole l’osso. In questo momento affronta la tera operazione chirurgica e ne dovrà affrontare altre per salvare il suo braccio che è stato praticamente staccato dal corpo dalla granata. Questa ragazza di New York, che al pari di numerosi altri si è presentata a Standing Rock per manifestare la propria solidarietà ai popoli aborigeni, è stata vittima di un abuso dell’uso della forza, in quanto essi esercitavano il loro diritto a manifestare, garantito dal primo emendamento della Costituzione USA. Un diritto che viene sistematicamente violato dalla polizia di Morton (Dakota del Nord) e dalla Guardia nazionale.

Linda Black Elk, membro del corpo dei medici di Standing Rock, che è stata testimone della repressione dell’ultima domenica, ha sostenuto che:

“La polizia ha aumentato il livello della violenza contro i protettori dell’acqua. Ho visto le differenti armi utilizzate contro di noi: gas lacrimogeni, proiettili in gomma, granate. Sembra che provino le loro armi contro di noi in una crescente militarizzazione della repressione”

Essa inoltre ha aggiunto: 

“Noi abbiamo subito un grande inganno con il presidente Obama. E’ venuto qui, ha fatto promesse e non ne ha mantenuto nessuna”.

Questa condotta governativa contro i diritti dei popoli indigeni non è affatto sorprendente, bensì è coerente con la condotta storica del governo USA che ha commesso/o ha permesso abusi sulle terre indigene fin dall’inizio della colonizzazione. Esempi di abusi contro i popoli Lakota e Dakota sono l’appropriazione di territori nelle Black Hills (Colline Nere, sacre per i popoli aborigeni) del Dakota del Sud dopo la scoperta dell’oro negli anni ’70 dell’800 e la costruzione di dighe sul fiume Missouri, che ha causato inondazioni in borgate in zone boschive e nelle fattorie del Dakota del Nord e in quello del Sud. negli anni ’50 del 900.


Mni Wiconi: l’acqua è vita

Giovedì 24 novembre media alternativi come Unicorn Riot e Indigenous Rising Moven hanno trasmesso in diretta da Standing Rock, Era il giorno in cui negli USA si celebra il Thanksgiving (giorno del Ringraziamento). Secondo la “storia ufficiale” gli indiani hanno “salvato” dalla morte i padri pellegrini offrendogli del cibo (versione accusata di falso da storici come Roxanne Dunbar-Ortiz che dice che i nativi non hanno mai ricevuto a braccia aperte i loro oppressori.

Come ricordo ironico della data, i Protettori dell’acqua hanno disposto dei tavoli con del cibo. A qualche metro alcune decine di poliziotti bloccavano la strada, da entrambe le parti, in modo da formare un cerchio. C’erano dei cartelli con la frase: “Non date da mangiare ai pellegrini” (Don’t Feed the Pilgrims). l’ordine del giorno era: “Nessun pellegrino, nessun oleodotto, niente prigioni, niente problemi“.

Una rada neve cade nella prateria deserta, persone con i loro grandi mantelli, con berretti o cappucci in testa si muovono in continuazione, alcuni cominciano a intonare i potenti canti tradizionali Lakota e il grido “Mni Wikoni” (l’acqua è vita). [3]

Volge al termine un altro giorno nella lunga battaglia per Standing Rock, il più grande raduno di popoli autoctoni da un secolo a questa parte, dalla battaglia di Little Big Horn o Greasy Grass che avvenne nel 1878. Fu una grande vittoria dell’alleanza delle tribù delle praterie, Lakota, Cheyenne e Arapaho, che sconfissero il Settimo Reggimento guidato dal generale Custer. Si dice che una visione del capo Lakota Sitting Bull (Toro Seduto) fosse stata d’ispirazione ai guerrieri: un sogno in cui i soldati dell’esercito USA cadevano dal cielo. Fu l’ultima vittoria degli indiani delle praterie. Oggi la comunità di Standing Rock gioca il ruolo principale in questa storica mobilitazione che per capacità di aggregazione, di differenziare, di continuità e di spirito combattivo sta per ottenere una grande e nuova vittoria.

NOTA: Qualche ora fa, il Corpo degli Ingegneri dell’esercito USA ha diramato alle autorità della riserva sioux l’ordine di evacuazione, da eseguirsi il 5 dicembre. Il capo sioux Dave Archambault, insieme agli altri rappresentanti della comunità, ha risposto che non si muoveranno.

Silvia Arana è una giornalista argentina che risiede a Quito, Ecuador.

Tradotto dallo spagnolo per il El Correo de la diáspora da Estelle e Carlos Debiasi

FONTE ORIGINALE: 

http://www.elcorreo.eu.org/Standing-Rock-la-plus-grande-mobilisation-indigene-depuis-plus-d-un-siecle

NEO – Hijacking Trump

REDAZIONE NOICOMUNISTI

Di Gordon Duff

FONTE
Traduzione di Guido Fontana Ros

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[Nota del redattore: Questo è un pezzo clamoroso di Gordon che rimarrà nel tempo. Diffondetelo in lungo e in largo mentre lo potete ancora fare. Non importa se siete occupati, leggetelo anche se siete lettori di lungo corso di VT e avete familiarità con la storia sottesa. Il pezzo su Trump è nuovo.

Vi avverto che è una storia deprimente, perché abbiamo ancora un’enorme porzione di popolazione cui è negato questo, che è educata a un livello dove potrebbero sapere, ma si pretende che non si sappia, che loro non hanno intenzione di andarsene.

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I manipolatori hanno fornito loro una copertura/scappatoia meravigliosa, la capacità di ripulire ogni cosa dicendo; “si tratta di ciarpame della teoria della cospirazione”… solo poche parole da ricordare che sono popolari perfino tra le persone con quoziente intellettivo di 60.

Il mio risveglio su molte di queste cose fu un processo lungo e lento, ma ho cominciato a credere a qualche sospetto su Hoover quando affermava che non ci fosse la mafia e che giunse dopo i rapinatori di banche e i contrabbandieri di liquore come se essi fossero un ricco giacimento di PR.

Gordon tratta di questo qui sotto con il tirapugni, nel suo solito stile… più in fretta di quanto riesca a scrivere, perché non deve guardare alcuna altra cosa. Salvate il link per quando incapperete in qualcuno che merita di essere inserito in questa storia dell’orrore… Jim W. Dean]

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Pubblicato per la prima volta il 9 agosto 2016

Nei due mesi passati, la popolarità di Donald Trump fra i più starnazzanti ed estremisti degli elettori americani di destra è salita, gli elettori non sono mai in discussione, mentre con “gli elettori indecisi” le cose sono molto diverse. Sia per caso che di proposito, il sabotaggio della campagna di Trump può essere delineato facilmente.

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Quando prendeva in considerazione l’idea di concorrere alla presidenza, i membri del comitato elettorale contattarono Veterans Today. Essi ci offrirono carte da riunioni sull’Africa, il Medio Oriente, sulle relazioni NATO e Russia e su una nuova “Guerra fredda” e atri materiali  i cui allora necessitavamo ovviamente. In cambio ci chiesero una mano sulle teorie della cospirazione.

Cominciarono col menzionare questioni come quella dell’ “Elmo di Giada” e dell’allora corrente assedio nell’Oregon, alla cui origine vi erano dei violenti estremisti antigovernativi manovrati da troll di internet. La squadra di Trump ignorava di addentrarsi nel “mondo delle milizie” dove gli informatori dell’FBI sopravanzano i “veri credenti” 10 a 1.

Ci sono così tanti informatori del FBI nella milizia e nei movimenti neonazisti della destra americana che, per anni, sono stati a spiarsi a vicenda. Naturalmente l’ FBI all’epoca ha spezzato il confronto in Oregon, imprigionando molti che da anni lavoravano per essa.

Questa è la trappola in cui è caduto Trump, i suoi burattinai lo hanno indottrinato con la falsa credenza di movimenti antigovernativi di milioni di membri, portandolo a una retorica violenta e infarcita di odio per eberei, neri e intellettuali.

Dietro di lui ci sono i manipolatori del FBI e della Sicurezza Interna che si assicurano il posto fabbricando minacce terroristiche interne come gli attentati di Oklahoma, dove quasi tutte le persone coinvolte lavorano per l’FBI, incluso Tim McVeigh, ex membro delle Forze Speciali dell’esercito e informatore e “affiliato” della milizia del Michigan gestita dall’FBI.

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Tim McVeigh

Non bisogna dimenticarsi del famigerato “cecchino di DC”, John Allen Muhammad ex membro delle Delta Forces, giustiziato nel 2009 nella sparatoria di Fort Hood dal dottor Nidal Hasan, ex consigliere della squadra di transizione del presidente Bush, scoperta fatta esaminando i dati dell’università George Washington.

C’è la piccola questione che la miscela di terroristi interni, di ufficiali ai massi livelli e di operativi clandestini dei servizi, di agitatori e di informatori, tutti tipi marginali con precedenti penali, stanno conducendo le forze dietro gli estremisti basati su internet che hanno sposato le vedute di Trump.

C’è anche un’altra piccola questione: i burattinai di Trump l’hanno inserito in questo ciarpame e sono stati così elettrizzati dal nutrire un miliardario candidato presidenziale di fantasie e da ricorrere dall’FBI per vantarsi di esso.

Questa non è una supposizione, non lo è per nulla.

Retroterra
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La nostra investigazione mostra che i “burattinai” di Trump, alla ricerca di un modo “economico e sporco” per pregiudicare la sensibilità degli elettori, si siano rivolti rapidamente alla parte peggiore di internet, ad imbonitori podcaster e blogger, molto dei quali hanno un retroterra suprematista e di identitarismo cristiano e quindi siano caduti in trappola in quanto quasi tutti quegli individui sono informatori dell’FBI.

Le affermazioni di Trump, il suo sostegno alla Russia, popolare presso un ampio numero di americani, ma combinato con accuse insensate e buffonate inbarazzanti, lo hanno fatto affondare non solo in una scommessa perdente per la presidenza ma anche in ua minaccia per il sistema politico dell’America.


Preso atto di questo, si pensava che Jeb Bush e John Kasich fossero i candidati del GOP in un’elezione truccata dagli intermediari del potere, dove i candidati doveavano “adempiere” certe “aspettative” o fare i conti con le bizzarrie del voto elettronico o con l’assassinio. Questo è il reale sistema politico americano, ma Trump ha oltrepassato la linea.

Cos’è l’FBI e come cominciò il suo coinvolgimento nella politica? L’FBI è un’organizzazione sfuggente istituita nel 20° secolo per combattere l’immoralità e la libera sessualità in America. Nel 1919 era stata approvata la proibizione dell’alcol, le donne avevano ottenuto il voto e quindi era stata istituita un’organizzazione per supervisionare le camere da letto dell’America, la sola che potesse controllare le pratiche sessuali tra coppie di sesso opposto, anche legalmente sposate

Per gestire questa organizzazione venne scelto J. Edgard Hoover, ritenuto ora non solo un gay dichiarato ma anche un travestito, se si pone credito alle storie diffuse dai media dopo la sua morte. Spargere tali notizie prima della sua morte, voleva dire esporsi a rappresaglie. Hoover non solamente gestì un’enorme operazione di ricatti politici, ma l’FBI avrebbe potuto assassinare chiunque avesse offeso Hoover, purché non facessero parte della mafia o del crimine organizzato.

Vedete, l’FBI andava a caccia di comunisti e di “pervertiti”, ma mai di membri del crimine organizzato. Hoover affermava che non esisteva una cosa del genere, niente mafia, niente gruppi rituali di satanisti, niente cabale di Wall Street, solo hippie comunisti e un’élite intellettuale che bisognava spiare.

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Questa è l’FBI e per questo che i programmi delle operazioni coperte, COINTELPRO, furono istituiti e nei fatti mai fermati. Il consulente di Veteran Today ed esperto di controsionaggio, Fred Coward, ha collaborato a COINTELPRO, rispondendone direttamente a Hoover e ancora difende astiosamente la sua guerra ai comunisti interni ma alcuni di noi vanno oltre e fanno ulteriori domande.

Oggi non solo l’FBI ma anche 16 agenzie note al pubblico e oltre 10 clandestine istituite nell’era della legislazione di emergenza della legge marziale di Bush, hanno ancora il diritto di detenere e di torturare senza ogni limite costituzionale cittadini americani per qualsiasi ragione.

Gli americani si sono assuefatti a sapere che le loro telefonate sono registrate, i loro computer violati, che ai lettori di contatori viene detto di guardare dalle finestre, che ai vicini viene detto di dare informazioni su altri vicini, questo è quello che l’America è diventata.
Dando a Cesare quello che è di Cesare, Trump potrebbe mettere fine a questo e non c’è nessun altro che lo potrebbe fare. Solo per questa ragione , nonostante gli orribili errori commessi, Trump merita la candidatura.

Questo di per sé è il motivo per cui Trump è nel mirino. La logica alla base di questo non è tanto la preoccupazione per il controllo degli americani che sono diventati tra i popoli più istituzionalizzati e politicamente senza speranza sulla terra, ma piuttosto per mantenere la narrazione, l’aria di normalità, avvolta in un velo di bugie, che è diventato il palcoscenico politico dell’America.

E’che oltre 50 miliardi di dollari l’anno vanno a queste agenzie e alle potenti società appaltatrici che le supportano, denaro in gran parte rubato. Peggio ancora l’infrastruttura della polizia di stato, ora impiega quasi 800.000 tra i peggiori dell’America, gente senza rispetto per la legge o per i diritti umani, una nuova generazione di guardie dei campi di sterminio di morte e di kapo, che vedono se stessi come governanti, i controllori d’America, al di sopra della legge, cui è stato dato il potere di proteggere una popolazione schiava dall’abusare delle libertà democratiche e delle scelte elettorali.

per comprenderli bisogna solo riandare al dopo 9/11 e all’istituzione del Dipartimento per la Sicurezza della Patria e a chi è realmente Michael Chertoff.

il nome stesso, “Sicurezza Interna” è ripugnante agli americani. L’America non è mai stata una “patria” e gli americani non hanno mai usato tele termine. Questo viene dritto dal “reich” di Hitler e non ha alcuna base nella cultura e tradizione americane, è un termine inventato da un gruppo di esperti di Washington.

Concesso che Trump possa essere la persona che possa mettere fine a tutto questo, vederlo calato in un mondo di fantasia creato da un’operazione di COINTELPRO e di pianificati eventi terroristici, di paure di invasioni fasulle e di teorie cospirazioniste inventate, è una vera e propria vergogna.

LA LUNGA STRADA VERSO L’INGANNO: FATTI E ANTEFATTI DI PEARL HARBOR

LA LUNGA STRADA VERSO L’INGANNO: FATTI E ANTEFATTI DI PEARL HARBOR

REDAZIONE NOICOMUNISTI

Di Luca Baldelli

7 dicembre 1941. Il Giappone militarista e filo – fascista di Hirohito, Konoye (Primo Ministro), Matsuoka (abile e inflessibile Ministro degli Esteri), Shiratori (Ambasciatore nipponico a Roma ), sferra l’attacco aereo contro la flotta statunitense a Pearl Harbor. Gli Usa di Franklin Delano Roosevelt hanno, offerto su un piatto d’argento, anzi dorato, il pretesto per rompere la cortina avvolgente dell’isolazionismo ed entrare in guerra contro l’Asse.

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L’Imperatore Hiro Hito

Nel Paese, gli umori contrari ad ogni coinvolgimento nel conflitto mondiale erano stati, almeno fino al 1940, maggioritari tra l’opinione pubblica e con assoluta trasversalità in riferimento al mosaico delle forze politiche: democratici, repubblicani, per tacer dei populisti di Padre Coughlin, fervente filofascista, animatore di trasmissioni radiofoniche trasudanti odio verso le “plutocrazie“, tutti, in stragrande maggioranza, desideravano stare alla finestra a guardare svilupparsi un conflitto che, nelle intenzioni dei centri di potere yankee, doveva, ad un tempo, provocare la reciproca distruzione di Germania e Urss e, poiché ciò non dispiaceva, anche logorare la potenza economica e l’impero coloniale inglesi. Poi, sulle macerie del Reichstag, del Cremlino e dei vari lembi isolani e coloniali di Albione, il giovane Impero Usa avrebbe consolidato e moltiplicato le sue fortune, facendolo ricadere nelle tasche dei suoi tycoons attraverso l’ineffabile cornucopia della dominazione militare, valutaria e finanziaria estesa a tutto l’orbe terracqueo.

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Il presidente Franklin Delano Roosvelt

Non era, in fondo, una novità, questa: negli anni ’20 e ’30, l’azione del Partito Repubblicano, con personaggi quali il Senatore Henry Cabot Lodge, del Massachusetts, e William E. Borah, dell’Idaho, era stata improntata al più marcato isolazionismo, che naturalmente non precludeva, anzi mascherava, un imperialismo accentuato nel “cortile di casa“ sudamericano e in altre aree. A partire dal 1940, con il crescere del confronto nippo – americano e anglo – nipponico nel quadrante asiatico, cresce il bisogno di agitare il “pericolo giallo“, spauracchio al quale il fascismo giapponese offre, con il suo volto aggressivo ed espansionista (molto simile a quello anglo – americano, d’altro canto), notevoli appigli.

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Il senatore William E. Borah, uno dei massimi esponenti della politica isolazionista USA

L’astro dell’isolazionismo, pertanto, appare calante. I megafoni della propaganda anglo – americana martellano inesorabilmente e senza pausa l’opinione pubblica: il Sol Levante viene dipinto come ricettacolo di ogni male e di ogni pericolo, come una minaccia alla sopravvivenza stessa dell’Occidente e del suo ordine economico. Naturalmente, che lì vi sia un regime fascista non impensierisce l’establishment americano: a Washington sono stati allevati e protetti i peggiori tiranni, dal nicaraguense Somoza, mandante dell’assassinio di Sandino, al dominicano Trujillo, razzista incallito, passando per il cubano Batista e l’haitiano Duvalier. Ciò che turba i sonni dell’Impero yankee è la possibilità che l’Asia, quantunque sotto la fascistissima “Sfera comune di prosperità della Grande Asia Orientale“ egemonizzata da Tokyo, una sorta di Nuovo Ordine Europeo in salsa orientale, possa scuotersi di dosso il giogo del capitalismo di rapina occidentale, a netta prevalenza inglese (in misura minore americana), e inaugurare un’era di nuovi rapporti di forza in quella parte del Pianeta.

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Augusto Cesar Sandino

Contro questa iattura, l’isolazionismo, caldeggiato all’inizio anche da Franklin Delano Roosevelt per poter essere rieletto, non solo non basta, ma è controproducente. Bisogna passare all’opzione militarista, con buona pace dei Prescott Bush e di quanti, per interessi economici opposti ma coincidenti, e per sentimenti filofascisti, sostengono l’appeasement tanto con la Germania quanto con il Giappone. Bisogna provocare l’Impero del Sol Levante e spingerlo a fare il passo falso, in modo tale da giustificare una dichiarazione di guerra, per la quale il terreno è stato d’altro canto preparato, nell’opinione pubblica, con la demonizzazione del Giappone.

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Winston Churchill

Ancora nel luglio 1941, un sondaggio Gallup rileva come il 79% dell’opinione pubblica statunitense sia contro la guerra e a favore di una non ingerenza negli affari europei. A novembre, la percentuale dei contrari, nonostante il martellamento mediatico nippofobico, tocca la soglia rilevante del 61%. Roosevelt, la cui fretta di entrare in guerra è notata persino, a più riprese, da vari uomini politici nell’arco temporale 1940/41 (in modo particolare da Churchill, nel corso della Conferenza Atlantica dell’agosto ’41), diviene alfiere della linea interventista, anche se deve guardarsi le spalle dalla fronda di infiltrati e isolazionisti duri a morire.

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Attraverso i media, come abbiamo visto, l’entourage presidenziale cerca di manipolare in ogni modo l’opinione pubblica, unendo, al consueto antisovietismo radicato nella mentalità americana, la più truculenta greuelpropaganda contro il Giappone. Tutto ciò non è però sufficiente! Occorre concepire piani militari, provocazioni, azioni false flag capaci di scuotere l’opinione pubblica, finanche di scioccarla, per spostare l’asse delle scelte verso l’impopolare opzione bellica. Occorre, in ambito militare, procedere anche con purghe di vasta entità, se necessario; non sono ammesse deroghe, critiche o distinguo in merito ai piani di guerra (folli, come quelli nipponici!) che si stanno preparando.

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Propaganda nazista dell’aggressione all’URSS

Gli Usa, al contrario dell’Urss, non sono un Paese invaso, attaccato e dunque legittimato a muovere guerra per salvare se stesso, la sua gente, le sue conquiste sociali; anzi, con i “Neutrality Acts“, Washington ha sancito di non volersi impicciare delle sorti del Vecchio Continente e di altre aree del Pianeta che non siano il proprio “courtyard”. Alla guerra ci si deve arrivare con l’inganno, “ by the way of deception “, per dirla alla yankee.

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E’ l’ottobre del 1940 quando il Luogotenente Comandante della Marina, Arthur H. McCollum, confeziona un documento molto importante per capire lo svolgersi dei fatti: un memorandum in otto punti otto ( “Eight Action Memo“), incentrati sulle migliori strategie per spingere il temuto Giappone alla guerra . Vediamoli uno per uno:

  1. Stabilire un’alleanza con la Gran Bretagna per utilizzare le basi militari di Singapore;
  2. Cementare un’ intesa con i Paesi Bassi per l’utilizzo delle basi nelle Indie olandesi;
  3. Intraprendere ogni azione utile per appoggiare il Governo di Chiang Kai Shek in Cina;
  4. Inviare un’intera divisione di incrociatori pesanti nelle acque dell’Oriente;
  5. Inviare due divisioni di sottomarini nella sfera di influenza giapponese;
  6. Tenere il grosso della flotta statunitense in prossimità delle Hawaii;
  7. Spingere gli olandesi a non accordare concessioni di alcun tipo al Giappone, in particolare nell’ambito dei commerci petroliferi;
  8. Varare un embargo totale verso il Giappone, assieme alla Gran Bretagna.

Gli storici ancora discutono su quale fosse il reale livello di conoscenza di Roosevelt rispetto a questo memorandum, ma appare ovvio che il Presidente ne sapesse almeno qualcosa! Infatti, tutte le azioni intraprese da Franklin Delano Roosevelt verso il Giappone, a partire dal 1940, sono coerenti con il dettato e con i propositi contenuti nei punti sopra riportati. Roosevelt, infatti, nel 1940/41, mette a segno uno dopo l’altro dei colpi che finiranno per convincere il Sol Levante circa l’inevitabilità della guerra con gli Usa.

Sul piano delle relazioni estere ed economiche, l’embargo statunitense sui minerali e i metalli, diretti verso un Giappone ormai lanciato sull’Indocina in “disimpegno coloniale” da parte del governo di Vichy, apre le danze belliche: esso pesa notevolmente sull’economia nipponica, dal momento che, ancora nel 1938/39, oltre il 70 % dei metalli ferrosi e più del 93 % del rame utilizzati in Giappone erano stati importati dagli Usa.

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L’Ammiraglio James O. Richardson

Sul piano strettamente interno, l’Ammiraglio Richardson, Comandante in capo della Marina, viene estromesso a causa del suo rifiuto di accettare deliberate provocazioni antinipponiche e di avallare una linea suicida su tutti i fronti: il governo americano, infatti, mentre fa spostare le flotta verso le Hawaii, a Pearl Harbor, non organizza e non rende possibili le più adeguate difese del caso contro attacchi aerei e a mezzo di siluri, assolutamente imprescindibili per assicurare l’integrità e l’invulnerabilità dei “pezzi da novanta“ del patrimonio militare navale. Il Pacifico, è chiaro, deve tingersi di sangue, perché solo così si può avere la scusa per entrare in guerra: questo è il messaggio che arriva alle orecchie dei più accorti e a nulla serve nasconderlo con la cortina fumogena dei frasari di convenienza.

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Foto aerea del porto di Pearl Harbor

Pearl Harbor, la località destinata ad assurgere alle massime vette della storia contemporanea, comincia a venir adocchiata e scrutata dal mirino giapponese, paradossalmente (si fa per dire…) secondo i piani americani. Del resto, non è la prima volta che il nome di questa esotica località ha fatto il proprio ingresso nei piani bellici, reali e virtuali, e nelle esercitazioni militari: nel 1932, l’Ammiraglio Yarnell, nel contesto di una simulazione, fa attaccare da 152 aeroplani la postazione navale di Pearl Harbor ; nel 1938, poi, l’Ammiraglio King, sempre nell’ambito di un’esercitazione, fa attaccare la postazione navale da velivoli levatisi in volo dalla portaerei “Saratoga“. C’è però dell’altro e ha a che fare con… la “magia“. Niente di esoterico, per carità (almeno in questo caso….) ! Si tratta del sistema “MAGIC“, complesso di sistemi di decodifica delle comunicazioni cifrate giapponesi. Ebbene, in quel burrascoso biennio 1940/41, l’intelligence statunitense è arrivata ormai a decodificare quasi tutti i messaggi in codice provenienti da Tokyo. Il sistema “MAGIC“ è una sorta di scatola magica dentro alla quale stanno vari scompartimenti, corrispondenti a diversi livelli di codifica: RED (poi PURPLE, usato dalle Ambasciate ), TSU (J – 19) e OITE (PA – K2), utilizzati dai Consolati, JN – 25 (Codice della Marina Imperiale Giapponese, poi sostituito dal BAKER 9).

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La querelle tra gli storici, ancora oggi, investe un argomento centrale: al dicembre del 1941, gli statunitensi avevano decifrato davvero i messaggi in codice nipponici? La tesi ufficiale è che l’attacco di Pearl Harbor non poteva essere previsto, dato che i messaggi criptati non erano stati decifrati in tempo . In particolare, si è sostenuto, la trasmissione dei dispacci era avvenuta con un’ora e quaranta minuti di ritardo rispetto al blitzkrieg nipponico: il messaggio sarebbe giunto infatti sulle scrivanie del Dipartimento di Stato alle 14,05. Questa la tesi ufficiale, giustificativa e assolutoria ; la realtà, come vedremo, attesta ben altri fatti.

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Un passo indietro, per riallacciarci ai preparativi bellici e inquadrare nelle giuste coordinate spazio – temporali il tutto. Il 1940 segna dunque, come abbiamo ricordato, le prime misure commerciali di boicottaggio degli Usa verso il Giappone, la formulazione del Piano Mc Collum , l’allontanamento dell’Ammiraglio Richardson, l’escalation della preparazione bellica mirata a colpire il Sol Levante. Matsuoka, Ministro degli Esteri nipponico, dichiara l’Indocina e le Indie francesi zone di interesse giapponese. L’ala dura dei fascisti giapponesi, come desiderato dagli anglo – americani, si rafforza sempre più, a scapito dei moderati. Si va estendendo, come conseguenza del titanico bracco di ferro ingaggiato, l’area di penetrazione economica e politica di Tokyo nel quadrante asiatico. L’anno successivo, il 1941, segna una tappa ancora più avanzata di questa strategia, con il tandem anglo – statunitense in cabina di regia. Il Giappone viene fatto oggetto di rappresaglie economiche e politiche con funzione di aperte provocazioni, di catalizzatori del conflitto che si vuole in ogni modo.

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In Inghilterra si procede con arresti in massa di cittadini nipponici incolpevoli, o meglio colpevoli solo di appartenere ad un Paese messo ormai nel mirino. Quando, nel luglio del 1941, Tokyo ottiene dal Governo di Vichy la possibilità di piazzare forze militari e avamposti difensivi nel cuore della vecchia Indocina francese, le contraddizioni inter – imperialiste con l’occidente si acuiscono sempre più. Ogni passo in avanti rassicurante della diplomazia giapponese, guidata in gran parte da elementi borghesi o vetero – aristocratici moderati, quantunque legati a concezioni imperialiste e nazionaliste, viene sabotato in maniera premeditata dagli Usa: in tale maniera, prende quota il “Partito dello scontro bellico“, la fazione radicale, oltranzista, guidata da Hideki Tojo, Ministro della Guerra.

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Hideki Tojo, ministro della Guerra nipponico

Se nel 1940 il boicottaggio economico statunitense aveva interessato i minerali e i metalli, nel 1941 la giugulazione economica colpisce il Sol Levante in maniera ancora più pesante: nel mese di luglio, tutti i beni del Giappone vengono infatti congelati, all’indomani dell’accordo tra Tokyo e Vichy. Ad agosto, nel caldo canicolare che infiamma il mondo, e non solo meteorologicamente ( la grande, eroica Urss combatte per fermare il tedesco invasore in totale solitudine!), gli Usa avanzano con tutte le pedine più insidiose sullo scacchiere, sferrando un colpo esiziale: l’embargo totale sul petrolio e i carburanti diretti verso il Giappone. Tokyo, per rendere l’idea, importa, nell’anno di grazia 1939, ben l’80% del petrolio dagli Usa!

E’ chiaro il messaggio che si vuol lanciare: via ogni residua trattativa, Tokyo sia stritolata nella morsa del boicottaggio e la parola passi alle armi. Come può, infatti, un Paese poverissimo di materie prime e sovrappopolato come il Giappone, fare a meno di approvvigionamenti vitali per la sua economia? Se si chiudono in faccia al Sol Levante le porte degli scambi commerciali in settori di importanza vitale, è evidente che si spera che Tokyo stesso cerchi di riaprirsele con azioni di forza nella regione asiatica, precisamente nell’area del Borneo e delle Indie olandesi, compiendo così il fatidico passo falso.

L’imperialismo porta la guerra come le nuvole la pioggia: questa verità, elementare per ogni militante marxista – leninista e antimperialista, emerge chiaramente osservando sul quadrante internazionale le mosse degli Usa nel periodo da noi preso in considerazione, oltre naturalmente a quelle della Germania e degli altri Paesi alleati o vicini all’Asse, Giappone incluso (con l’ala dura dei militari in azione di rafforzamento speculare a quella dei falchi yankee).

Gli Stati maggiori preparano piani di guerra sempre più dettagliati, con la previsione di attuarli nel più breve tempo possibile. I giapponesi sono agguerriti e non intendono lasciare l’iniziativa a Roosevelt, per trovarsi poi impreparati e costretti a impaludare le proprie truppe nelle secche degli Oceani, con esiti rovinosi. Così, l’aeronautica giapponese, con spirito di iniziativa e dinamismo superiori a quelli degli altri corpi militari, rispolvera il vecchio progetto (prima appartenuto al capitolo “varie ed eventuali“) di colpire Pearl Harbor, ovvero quella stessa base navale delle Hawaii che, con perfetta coerenza rispetto agli intenti provocatori di Roosevelt, e in spregio agli inviti alla prudenza di parte dei vertici militari della Marina Usa, è stata trasformata nella piazzaforte yankee del Pacifico. Quel luogo esotico, evocante coralli e corone di fiori a cingere il collo dei turisti, sta per diventare la dependance fisica e storica dell’Armageddon… E lo sanno in molti, anche se per decenni si darà ad intendere che non è così!

Nel gennaio del 1941, Ricardo Shreiber, inviato peruviano a Tokyo, confida a Max Bishop, terzo Segretario dell’Ambasciata Usa, di essere a conoscenza di un piano giapponese per attaccare Pearl Harbor. Di questa informazione viene messo al corrente il Dipartimento di Stato, assieme all’Ammiraglio Kimmel, nuovo Comandante della flotta, il quale sarà poi destinato a fare da capro espiatorio per una mancata difesa della base navale voluta scientemente da chi già aveva programmato la guerra, non certo da lui.

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La spia di origine serba Dusko Popov

Il 31 marzo successivo, la relazione navale Bellinger – Martin ribadisce, nero su bianco, che si sta preparando un attacco giapponese, con Pearl Harbor come bersaglio. Ad agosto è Dusko Popov, uno dei principali agenti inglesi, nome in codice “Triciclo”, a rivelare all’FBI il piano di attacco a Pearl Harbor. Più o meno nello stesso periodo, il Senatore Guy Gillette, venuto a conoscenza dei preparativi bellici in maniera dettagliata, allerta il Dipartimento di Stato e lo stesso Franklin Delano Roosevelt. Nell’ottobre del 1941, l’agente segreto Sorge, messosi a disposizione dell’Urss per la suprema causa della pace mondiale, informa del prossimo attacco a Pearl Harbor il Cremlino, che, prontamente, gira la preziosa dritta agli Usa, anche se dai verbali del governo statunitense sparirà ogni riferimento al fatto (ben 32.000 passaggi “sbianchettati“ dagli omissis!).

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L’agente sovietico Richard Sorge

Oltre a questi avvertimenti, tutti convergenti verso un unico obiettivo, chiaro e preciso, c’è l’attività di decifrazione dei messaggi in codice giapponesi da parte degli Usa, che procede inarrestabile come un panzer. Altro che messaggi tradotti in ritardo o trasmessi in maniera non tempestiva, magari per le rivalità tra Marina ed Esercito Usa! In quel 1941, il Governo americano sa tutto. I “non c’ero e se c’ero dormivo“ fanno inorridire ogni serio storico che valuti prove e riscontri! Il Capitano J.Holtwick, nel giugno 1971, scrive a corredo dei documenti del “Naval Security Group History to World War II“:

“Dal 1° dicembre del 1941, noi avevamo decifrato il codice giapponese in maniera quasi integrale“.

Winston Churchill, dal canto suo, afferma:

“Dalla fine del 1940, gli americani avevano penetrato la barriera dei cifrari giapponesi e avevano decodificato la gran parte dei messaggi militari e diplomatici“ (si veda, in particolare, il volume “La seconda Guerra Mondiale – La Grande Alleanza“, Arnoldo Mondadori Editore, 1965).

Non finisce qui: nel 1979, la NASA rende pubblici 2413 messaggi JN – 25 decodificati (relativi alle comunicazioni della Marina giapponese) sui 26.581 intercettati dagli Usa tra il 1° e il 4 dicembre 1941. Si scopre che essi contengono importanti dettagli concernenti l’esistenza, l’organizzazione logistica e gli obiettivi dell’attacco di Pearl Harbor. In quel periodo, Roosevelt viene informato non una, ma due volte al giorno rispetto a tali messaggi dal suo aiutante, John Beardell.

Insomma, i vertici del potere americano, a partire dal Presidente Roosevelt, sanno tutto o quasi e nonostante ciò nessuno prende misure di sicurezza degne di questo nome per proteggere Pearl Harbor, indicato espressamente nei messaggi come target. La scusa dell’incertezza circa gli obiettivi nel mirino dei giapponesi, mutevoli e plurimi nelle intenzioni “captate“ dai crittografi, quindi, non regge, specie alla luce del fatto che proprio a Pearl Harbor gli Usa avevano voluto concentrare la parte più rilevante della loro flotta, nell’intento di farne il bersaglio principe che potesse poi giustificare la rottura della neutralità e l’ingresso in guerra, con forze fresche e mezzi dispiegati in quantità.

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Civile ucciso a Pearl Harbor

Lo storico Robert Stinnet, con rigore, imparzialità e ricchezza di riferimenti documentali, ha trattato magistralmente l’argomento, dimostrando l’insostenibilità di certe tesi assolutorie. Sta di fatto che il 7 dicembre, nel Pacifico, a Pearl Harbor, la potenza di fuoco dell’aviazione giapponese giunge indisturbata e quasi indisturbata riparte, dopo aver spedito tra le fiamme e i flutti selvaggi, distrutti o danneggiati, 6 corazzate, 3 incrociatori, 188 velivoli e via elencando. I morti sono 2403 tra gli americani, dei quali 68 civili. 1178 i feriti.

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Stranamente (si fa per dire…) nella baia, quel giorno, non sono però all’ancora le tre portaerei Usa che costituiscono il vero obiettivo dell’attacco: l’ “Enterprise“, la “Hornet“ e la “Yorktown“. Questi assi nella manica, misteriosamente celati agli artigli dei falchi dell’aria nipponici, saranno determinanti per le sorti del conflitto, a partire dalla battaglia delle Midway. Fortunosa coincidenza? O piano premeditato per sacrificare parte della flotta in nome della più alta esigenza di dar fuoco alle polveri?

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L’affonndamento della Yorktown nella battaglia delle Midway

Roosevelt, del resto, non aveva sempre detto che era pronto a immolare sull’altare della guerra, come vittime sacrificali, alcune imbarcazioni della Marina americana e taluni equipaggiamenti dell’Esercito? L’attacco giapponese, certamente congegnato con maestria, è un fatto che non parla da solo, decontestualizzato e preso in sé e per sè! Infatti, a chi addebitarlo? Al fascismo militarista giapponese e basta?

Certamente l’espansionismo nipponico, che doveva mascherare le proprie mire dietro allo schermo della retorica anticoloniale della liberazione dell’Asia dal dominio occidentale, ha giocato il suo ruolo. Accanto ad esso, però, va collocata la tigre di carta che, col suo fiato e i suoi artigli, l’ha rafforzato e, in quel frangente, ne ha condizionato le mosse come con un telecomando: l’imperialismo americano, sempre anelante all’individuazione di un nemico attorno al quale coalizzare l’opinione pubblica per propositi bellici.

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L’affondamento della USS Maine

L’11 settembre, in fondo, non è una data ma una filosofia, una strategia della provocazione vecchia quanto l’Impero americano, dall’affondamento della nave “USS Maine“ che fece scoppiare la guerra ispano – americana nel 1898, alle Due Torri, passando per Pearl Harbor.

Il Giappone sarà sconfitto nel secondo conflitto mondiale, in primo luogo dai popoli liberi che, se da un lato volevano scuotere il giogo dell’imperialismo occidentale, dello sfruttamento dei monopoli con le loro teste d’uovo a Londra, Parigi e Washington, dall’altro non desideravano di finire da questa padella nella brace degli zaibatsu nipponici, del capitalismo castale e di rapina del Sol Levante.

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Il Presidente Mao Tse Tung

La Cina di Mao, lottando contro i fascisti e i fantocci dell’imperialismo, mostrerà ai popoli asiatici la giusta via per la loro liberazione, additando loro una vera, reale “sfera di coprosperità“ eguale per tutti e foriera di vero sviluppo per tutti: quella di un socialismo in cui modernità e tradizione si fondevano nel crogiolo della storia millenaria di un popolo.

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Hiroshima

Gli ordigni di Hiroshima e Nagasaki colpiranno vigliaccamente un Paese, il Giappone, quando esso già si era di fatto arreso, il tutto per dimostrare all’Urss chi era che comandava nel mondo e chi doveva tenere strette in pugno le redini del comando. Quegli ordigni, però, non potranno frenare né l’avanzata dell’Urss né il movimento mondiale delle masse oppresse dall’imperialismo nei quattro continenti, fatto questo che diventerà evidente con la decolonizzazione dell’Africa, l’ingresso della Cina e dell’India sulla scena internazionale, la vittoria del Vietnam, una vittoria in cui patriottismo e socialismo si sono fusi nella bandiera rossa.

Se oggi il mondo è diverso, se la Cina si affaccia sullo scenario internazionale e lo condiziona in misura determinante, facendo saltare con la Russia il paradigma dell’unipolarismo Usa, nonché rimettendo in moto la stessa parte sana e progressista del nazionalismo giapponese, il merito è di chi, un tempo, ha saputo sconfiggere l’imperialismo occidentale e quello nipponico assieme, facendo saltare i fronti che a Pearl Harbor, con la provocazione e l’inganno, qualcuno aveva immaginato irreversibili e imperituri.

Riferimenti utili :

Robert Stinnett, “Il giorno dell’inganno“ ( Milano, Il Saggiatore, 2001 )
http://www.whatreallyhappened.com/WRHARTICLES/pearl.php#axzz4CLhl0jQq
Peter Herde, “Pearl Harbor“ ( Milano, BUR, 2001 )
Winston Churchill, “La Seconda Guerra Mondiale“, Vol. III (Milano, Mondadori, 1965)

The Nazi Hydra in America

The Nazi Hydra in America

REDAZIONE NOICOMUNISTI

Traduzione di Davide Spagnoli, correzione di bozza di Danila Cucurnia e Guido Fontana

Assistendo agli avvenimenti di questi tempi in Ucraina ci si chiede come mai l’imperialismo USA si avvalga dell’operato di soggetti così impresentabili come i nazisti. La risposta viene da molto lontano. Gli elementi fondanti del nazismo e del fascismo si svilupparono ben prima della comparsa di questi movimenti politici. Codesti elementi, quali ad esempio l’eugenetica, il razzismo comparvero non per caso nel milieu economico culturale del capitalismo anglosassone. Prima in Gran Bretagna in epoca vittoriana, poi pochi anni dopo trovarono fertile terreno negli USA a cavallo tra la fine del 1800 e l’inizio della I Guerra Mondiale. Dopo questo conflitto si diffusero nel Vecchio Continente grazie al massiccio appoggio delle grandi corporation. Insomma il nazismo e il fascismo non sono una variabile impazzita, apparentemente anticapitalista di un sistema politico autoritario e borghese, sono in realtà la forma che assume il capitalismo nei momenti  di crisi.
Con questa traduzione di un capitolo dell’opera di Yeadon e John Hawkins, Nazi Hydra in America, vogliamo far conoscere al pubblico italiano la storia misconosciuta delle pesantissime complicità di potenti settori dell’establishment economico/politico USA con la Germania nazista.E’ nostra intenzione continuare a offrire traduzioni in italiano di saggi, articoli e capitoli di libri su questo argomento. Testi quasi sempre tenuti in disparte dal main stream e spesso di difficile reperibilità.Buona lettura.

 

TRADUZIONE DEL CAPITOLO 5 DI NAZI HYDRA IN AMERICA

 

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John Loftus intervistato da Aaron Dykes per Infowars

John Loftus intervistato da Aaron Dykes per Infowars

REDAZIONE NOICOMUNISTI

A cura di Davide Spagnoli

Presentiamo la traduzione di una interessante intervista a John Loftus, ex membro di servizi segreti USA, sugli infami legami fra settori del governo e dell’alta finanza USA con nazisti e fondamentalisti islamici.

Leggendola si capirà l’amorosa corresponsione di sensi fra il Dipartimento di Stato statunitense e i nazisti in Ucraina…un amore che viene da molto lontano.

Occorre dire che queste cose vengono affermate da un ufficiale USA che, per sua espressa dichiarazione, è anticomunista.

Vi lasciamo alla lettura.

Chi volesse approfondire la questione della Fratellanza musulmana può vedere a questa pagina.

 

FONTE

I campi di concentramento USA per il popolo delle isole Aleutine

I campi di concentramento USA per il popolo delle isole Aleutine

REDAZIONE NOICOMUNISTI

Traduzione di Guido Fontana Ros

FONTE

Il Ministero degli Affari Esteri della Russia, affrontò la questione con la prima relazione speciale dedicata ai diritti umani negli Stati Uniti. La Duma di Stato russa tenne le audizioni il 22 ottobre 2012. Il documento contiene diversi esempi di discriminazione razziale e religiosa contro i cittadini degli Stati Uniti. Il film intitolato Aleut Story di recente è apparso sugli schermi. Questa è la storia dedicata agli orribili eventi del 1942, quando la popolazione delle isole Aleutine e dell’isola di Pribilof venne deportata e internata per essere sostituita. Anche adesso pochi americani hanno qualche idea su ciò che accadde.

La storia dell’internamento dei giapponesi è più o meno nota negli Stati Uniti. Nel 1940 il Giappone era il nemico principale nel Pacifico. Anche se le azioni di combattimento si svolgevano a molte miglia di distanza dagli Stati Uniti continentali, 120.000 giapponesi furono forzatamente trasferiti dalla West Coast e internati. Oltre il 60% di loro erano cittadini statunitensi.

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Cittadino USA di etnia giapponese in campo di concentramento

I sentimenti anti-giapponesi erano al culmine. Non c’è da stupirsi: all’inizio degli anni 1990 la legislazione in alcuni Stati vietava ancora matrimoni misti tra asiatici e bianchi. I giapponesi furono deportati e paragonati a più parassiti. Le descrizioni più estreme dei giapponesi inclusi li dipingevano come un popolo proprio assetato di sangue . Sottolineo che la storia è legata agli americani di origine giapponese, non ai giapponesi che vivevano in Giappone. Anche gli orfani che avevano più di 1/16 di sangue giapponese furono internati! I I giapponesi furono deportati dalla costa occidentale verso l’interno del continente e costretti a vivere in baracche inadatte per accogliere molte persone e ad affrontare a inverni rigidi. Chi avesse osato mettere il naso fuori, avrebbe rischiato di beccarsi un proiettile sparato dalla guardie.

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Campo di concentramento USA per cittadini di etnia giapponese

Dopo il bombardamento giapponese di Dutch Harbor a Unalaska nel 1942, gli aleutini dell’Alaska seguirono il destino dei giapponesi americani. Il governo degli Stati Uniti dispose che chiunque avesse un ottavo o più di  sangue aleutino dovesse essere evacuato dalle isole. Nessuno disse loro dove stavano andando. Furono solamente scaricati a forza sulle navi e portati in campi speciali (in tutto ce n’erano quattro). Le condizioni di vita erano terribili:  fame, freddo, malattie e morte…

L.C. McMillin, agente e guardia al campo di evacuazione da Pribilof a Funter Bay, inviò una lettera ai superiori esprimendo indignazione per le condizioni di vita degli indigeni. La lettera gli ritornò indetro e l’agente venne rimproverato. Le autorità non avevano voglia di conoscere le sofferenze che pativano gli  aleutini.

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Mamma con figlio aleutini deportati

Non era meglio a Kilisnoo. Gli internati dovevano bere acqua fangosa e  affrontare i rigori degli inverni dell’Alaska in baracche non riscaldate. Non fu il governo federale, ma piuttosto gli indiani Tlingit, a venire in loro aiuto. Condivisero le coperte, il sale e le medicine. I tentativi di portare degli aiuti umanitari su larga scala furono arrestati dalle autorità, le petizioni inviate dalle donne aleutine per elemosinare la possibilità di riscaldare e nutrire i propri figli rimasero senza risposta. Kilisnoo era famosa per il tasso di mortalità più elevato tra gli internati. A Burnett Inlet, gli aleutini vennero fatti vivere nelle case, abbandonate dai lavoratori della fabbrica di conserve, che era abbandonata da molti anni fa. La fabbrica funzionava soltanto durante le stagioni calde, quindi non c’era il riscaldamento nelle case. C’erano muri sfondati, senza letti, senza acqua, senza energia elettrica e branche di lupi affamati si aggiravano di notte proprio dietro le mura.

Tre settimane dopo il trasferimento, William Zakharov (!), Capo della comunità degli Aleutini, inviò una denuncia alle autorità locali chiedendo di migliorare le condizioni di vita. Ci furono molte altre denunce, ma fu solo nel 1945 che i detenuti di Barnett Inlet poterono tornare a trovare le loro accoglienti case a Unalaska saccheggiate dai soldati americani.

Il campo di Ward Lake era famigerato. Era circondato da una boscaglia impraticabile, la città più vicina era solo a circa otto miglia di distanza, ma gli aleutini non potevano arrivarci. Le condizioni di vita non erano meglio che negli altri campi di internamento, un paio di caserme umide all’interno, senza luce, senza acqua, un paio di capannoni nel cortile e una piccola latrina, una sola per tutti, nei pressi del luogo destinato alla mensa.

In tutti i quattro campi ci furono epidemie di tubercolosi, polmonite e di malattie della pelle con molti decessi. Tutti ne patirono, adulti e bambini. L’approvvigionamento di cibo era solo il 20% di quanto richiesto. La gente stava morendo di fame e di mancanza di cure mediche (1).

Non importa quanto deboli fossero, gli uomini furono costretti a lavorare nella pesca marittima. Diventarono schiavi, minacciati in caso di rifiuto di rimanere nei campi per sempre con le loro famiglie (2). Gli Aleuti cercavano di trovare un reddito aggiuntivo, un posto dove non sarebbero stati costretti a lavorare per niente, ma le autorità federali vigilarono con solerzia per farli rimanere dove si trovavano. Le richieste di massa per il permesso di lavoro, in modo che gli uomini potessero sfamare le loro famiglie, vennero rifiutate. Le autorità usarono la massima parsimonia per tutto: cibo, materiali da costruzione, medicine. Gli aleutini pagarono con la loro vita.

I soldati americani non solo saccheggiarono le case, ma anche le chiese. Erano chiese ortodosse prevalentemente greche. Storicamente gli Aleuti finirono sotto l’influenza culturale della Russia, che aveva una salda fede rnella sua chiesa. Pietro l’Aleuta è venerato come santo per essere stato torturato e ucciso dagli spagnoli nel 1815 essendosi rifiutato di convertirsi al cattolicesimo. La storia divenne nota nel mondo grazie alla testimonianza di Ivan Kiglay, un lavoratore portuale aleutino originario da Kadiak, che riuscì a liberarsi dalla prigionia. SSalta all’occhio quanti aleutini, internati dagli americani, avessero nomi russi, per esempio come: Lestenkov, Prokopiev e Zakharov.

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Oggi alcuni aleutini  visitano le tombe dei loro predecessori che non sono sopravvissuti all’internamento. I testimoni di quegli eventi lontani sono sicuri che il trattamento crudele degli aleutini americani, allo stesso modo degli americani di origine giapponese, non si può spiegare con esigenze belliche, ma piuttosto con il pregiudizio razziale.

La storia degli aleutini  è un racconto di un internamento coatto, del fatto che, anche dopo decine di anni, non è possibile ottenere alcun risarcimento per coloro che hanno sofferto o anche solo delle scuse dai poteri degli Stati Uniti. Trattando della risposta del pubblico al film, sembra che abbia toccato soprattutto coloro, che hanno una diretta relazione cogli eventi, coloro che studiano la storia locale e un gruppo di uomini dei media che ha scritto su di essa. Il fatto che patirono l’internamento non solo i giapponesi, ma  anche gli aleutini, non è diventato di dominio del grande pubblico. La storia degli aleutini si è persa nell’oceano della produzione dell’industria cinematografica statunitense.

(1) «Aleutine Internment Camps: The untold US atrocity» (CENSORED NEWS, 8.11.12)

(2) Ibidem.